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Anatocismo e Usura > Testi sentenze 2004/2010 > Sentenze 2012
SENTENZA n°
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale di Brindisi, Sez. Ostuni, in persona del giudice Dott. Antonio Ivan Natali, ha emesso la seguente
S E N T E N Z A
nella causa civile iscritta al n. 86/04 del Ruolo Generale promossa
D A
DITTA INDIVIDUALE F. A., in persona del legale rappresentante Sig. F. A., rappresentata e difesa dall'Avv. OMISSIS,
ATTRICE - CONVENUTA IN RICONVENZIONALE
CONTRO
B.G. S.P.A., in persona del procuratore speciale Avv. OMISSIS
CONVENUTA - ATTRICE IN RICONVENZIONALE
FATTO E DIRITTO
Con atto di citazione del 12.3.2004, notificato il 12.15.3.2012, la Ditta Individuale F. A., in persona del suo omonimo titolare e legale rappresentante Sig. F. A., conveniva in giudizio, dinanzi a questo Tribunale, la B.G. S.p.A., in persona del suo legale rappresentante pro tempore, affinché, previo accertamento e dichiarazione di nullità delle clausole contrattuali relative agli interessi, alla capitalizzazione trimestrale, alle commissioni di massimo scoperto, alla valuta d'uso ed alle valute applicabili alle commissioni, remunerazioni e spese, contenute dai contratti di conto corrente bancario intercorsi con il sopradetto istituto bancario, fosse accertato e dichiarato il suo credito di €.40.271,98 ( S.E. e/o O) e quest'ultimo fosse, pertanto, condannato al pagamento della detta somma, oltre alla rivalutazione in ragione compensativa della svalutazione monetaria intervenuta - se ed in quanto dovuta - ed agli interessi legali sul capitale - eventualmente rivalutato - dalla data di sottoscrizione del contratto di conto corrente bancario o di proposizione della domanda, ovvero da quel diverso giorno individuato da questo Giudicante, fino al giorno dell' emananda sentenza. In via alternativa e subordinata, chiedeva che la B.G. S.p.A., in persona del suo legale rappresentante pro tempore, in virtù di tutti o taluni dei titoli e motivi prospettati ed anche in considerazione dell'eventuale riconoscimento degli interessi sulle somme di denaro utilizzate dall'attore sui ridetti conti correnti, fosse condannata, alla restituzione di quella diversa somma, maggiore o minore, che sarebbe risultata di giustizia in corso di causa, occorrendo anche ex art. 1226 c.c., ed oltre, in ogni caso, alla rivalutazione in ragione compensativa della svalutazione monetaria intervenuta - se ed in quanto dovuta, ed agli interessi legali sul capitale - eventualmente rivalutato - dalla data di sottoscrizione del detto contratto di conto corrente bancario o di proposizione della domanda, ovvero da quel diverso giorno che sarebbe stato individuato da questo Giudice, fino al giorno dell' emananda sentenza.
Chiedeva, inoltre, la condanna della Banca convenuta, in persona del suo legale rappresentante pro tempore, ove ritenute ricorrenti le condizioni di legge, al risarcimento del maggior danno ex art.1224, II comma, cod. civ.. Chiedeva, altresì, che, nell'ipotesi che, a seguito di C.T.U., fosse risultato un credito della Banca, fosse accertato e dichiarato che quest'ultimo risultava, comunque, minore rispetto a quello quantificato e preteso, con estratto conto al 31.12.2003, di € 31.288,78. Avanzava, infine, richiesta di condanna della convenuta al pagamento di spese e competenze legali di giudizio maggiorate di spese generali, nonché degli accessori di legge (IVA e CPA) sulle voci imponibili. Con comparsa di costituzione e risposta con domanda riconvenzionale del 10.05.2004, si costituiva in giudizio la B.G. S.p.A., la quale impugnava e contestava il contenuto dell'atto di citazione e dei documenti prodotti a sostegno della domanda, chiedendo il rigetto di tutte le domande attrici.
Chiedeva, quindi, in accoglimento della spiegata domanda riconvenzionale, condannarsi la ditta attrice, in persona del suo titolare e legale rappresentante, al pagamento, in proprio favore, della somma di € 600,08, quale saldo debitore in linea capitale al 13.5.2004 presentato dal conto corrente n.967990401-80, oltre interessi al tasso convenzionale con capitalizzazione trimestrale a far tempo dall'1.4.2004 ed € 32.499,41, quale saldo debitore in linea capitale al 13.5.2004 presentato dal conto corrente n. 967990407 - 86, oltre interessi al tasso convenzionale con capitalizzazione trimestrale a far tempo dal 1.4.2004. Chiedeva, infine, la condanna dell'attore al pagamento delle spese e competenze di lite.
La domanda dell'attrice è fondata in parte qua.
Omessa impugnativa degli estratti conto nei termini ex lege
Per quel che concerne, l'omessa impugnativa degli estratti conto nel termine previsto dalla legge è opportuno evidenziare come quanto sostenuto da parte convenuta non meriti condivisione atteso che il correntista può contestare, nel termine decennale di prescrizione ordinaria, la validità e l'efficacia dei rapporti obbligatori da cui scaturiscono le partite inserite nel conto. Ciò anche in assenza di impugnazione dello stesso nel termine semestrale previsto ex lege (v. in tal senso Cass. 5-12-2003, n. 18626; Cass. 26-7-2001, n. 10186; Cass. 25-7-2001, n. 10129; Cass. 11-5-2001, n. 6548; Cass. 14-5-1998, n. 4846; Cass. 11-9-1997, n. 8989; Cass. 11-3-1996, n. 1978).
Infatti, la mancata contestazione dell'estratto conto, con l'implicita approvazione di tutte le operazioni bancarie regolate nel conto stesso, in virtù della natura sostanzialmente confessoria delle annotazioni riportate in conto, comporta la non contestabilità delle risultanze delle stesse, sotto il profilo meramente contabile, non potendosi più revocare in dubbio che siano state compiute determinate operazioni (es. addebiti, accrediti) e secondo determinate cadenze temporali.
Per contro, rimangono proponibili le censure attinenti alla validità e all'efficacia dei rapporti obbligatori da cui scaturiscono le partite inserite nel conto, in quanto in tal caso l'impugnativa, non essendo limitata alla contestazione di accrediti e di addebiti sotto il profilo contabile, non è direttamente collegata all'estratto conto trasmesso dalla banca (Cass., sez. I, 05-12-2003, n. 18626).
Dunque, il silenzio del correntista non può, pertanto, assurgere a elemento costitutivo di diritti di credito in realtà insussistenti in favore dell'istituto di credito.
Nessun rilievo può essere riconosciuto, a tal fine, al richiamo all'art. 1832 c.c. contenuto nell'art. 1857 c.c., posto che le norme dettate dal codice civile in materia di conto corrente ordinario non sono analogicamente applicabili alle operazioni in conto corrente bancario.
Ciò, in virtù delle differenze sostanziali intercorrenti fra le due fattispecie, in quanto, mentre nel conto corrente ordinario è prevista l'inesigibilità ed indisponibilità delle somme a saldo fino alla chiusura del conto, nel conto corrente bancario è prevista la possibilità per il correntista di esigere in ogni momento il saldo attivo o disporne indirettamente.
L'onere della prova del carattere dovuto del diritto di credito che sorga dall'eventuale saldo negativo per il correntista: l'impatto delle Sezioni Unite n. 13533 del 2001
Orbene, nel presente giudizio - in cui la banca ha proposto domanda riconvenzionale - si è disposta la rideterminazione delle ragioni di dare e avere, assumendo quale base del riconteggio un saldo di partenza pari a zero.
Preliminare alla verifica della liceità e correttezza di tale operazione è l'esatta determinazione della parte che deve considerarsi onerata della prova del diritto di credito che sorga dall'eventuale saldo negativo per il correntista.
Invero, come noto, il principio dell'onere della prova di cui all'articolo 2697 c.c., impone che chi agisce in giudizio per far valere una propria pretesa, fornisca la prova dei fatti costitutivi della stessa.
Nondimeno, la regola generale dell'art. 2697 c.c. deve essere adeguatamente temperata avendo riguardo al principio della vicinanza alla fonte della prova; principio che le Sezioni Unite, n. 13533, del 2001, hanno elevato a criterio principe nella ripartizione dell'onere stesso.
Orbene, quando l'azione esperita sia un'azione di accertamento negativo del debito del correntista, fondata sulla illiceità degli addebiti operati dalla controparte in relazione al rapporto inter partes, elementi costitutivi dell'azione devono considerarsi le dedotte nullità nonchè la misura in cui le stesse hanno, eventualmente inciso sulle reciproche ragioni di dare e avere, e, dunque, l'inesistenza in tutto o in parte della pretesa creditoria.
Poiché, però - come ribadito dalle Sezioni Unite n. 13533 del 2001, negativa non sunt probanda - la prova che non esista un credito della banca o che lo stesso non abbia una determinata consistenza quantitativa non possono essere poste carico dell'attore; per contro, esponendosi lo stesso all'onere di una prova diabolica.
E, quindi - in conformità al principio dell'abituale scissione fra allegazione del fatto e sua prova che costituisce logico corollario dell'applicazione del principio d'inveterata vigenza per cui negativa non sunt probanda - il "debitore" può limitarsi ad allegare l'inesistenza del credito, dovendo per contro la banca convenuta fornire la prova dell'esistenza della pretesa creditoria vantata ed, eventualmente, già azionata nei riguardi del primo.
Tale principio, rispondente ad un principio di razionalità logica, ovviamente, è valevole per qualunque ipotesi in cui sia dedotta in giudizio l'esistenza di un credito o di una posizione giuridica attiva, anche di carattere reale, e se ne imponga l'accertamento negativo.
Profili sistematici: l'azione negatoria servitutis e l'azione di ripetizione d'indebito
Si trova puntuale conferma dell'assunto suesposto anche in relazione all'azione negatoria servitutis, in relazione alla quale l'attore può limitarsi ad allegare l'inesistenza di servitù in danno del proprio fondo e in favore di quello del convenuto, dovendo, per contro, tal ultimo fornire la prova dell'esistenza del diritto reale minore.
Per quanto concerne la diversa ipotesi dell'azione di ripetizione d'indebito, quale è quella di specie, elementi costitutivi dell'azione sono, da un lato, l'esistenza di un pagamento (versamento con funzione solutoria) oppure - come spesso, accade nel rapporto tra cliente e sistema bancario - la soggezione del correntista ad un addebito o ad una pluralità di addebiti, e, dall'altra, l'illiceità dei predetti esborsi patrimoniali, dovendosi ritenere tali le diminuzioni patrimoniali non giustificate fin dall'origine.
Orbene, in tale ipotesi - assimilabile a quella già esaminata sotto il profilo della richiesta di un accertamento di carattere negativo (ovvero l'assenza di titolo per determinati esborsi) - in applicazione del predetto schema di ripartizione dell'onere probatorio, l'attore può limitarsi a dedurre l'illegittimità di pattuizioni e/o pratiche poste in essere dalla banca, quando la condotta della banca non trovi giustificazione in alcuna pattuizione contrattuale, seppur nulla; e, cioè, che gli addebiti della banca sono sine titulo,
Orbene, se nell'ambito della ricostruzione del conto, consti un saldo iniziale negativo e la genesi di questo non sia suscettibile di ricostruzione, per la carenza di idonea documentazione - ovvero degli estratti conto relativi al lasso di tempo, intercorso fra l'inizio del rapporto e il saldo de quo - deve ritenersi che l'attore in ripetizione possa limitarsi ad asserire la non debenza della somma relativa al predetto saldo, per contro, essendo onere della banca dimostrare la liceità del suddetto importo.
Nell'impossibilità di accertare natura e liceità dell'importo, portato dal saldo negativo, dovrà provvedersi all'azzeramento del predetto saldo.
Né, avverso la predetta soluzione esegetica, sarebbe utile richiamare il combinato disposto degli articoli 1222 e 2958 del Codice Civile, secondo cui le scritture contabili devono essere conservate per dieci anni dalla data dell'ultima registrazione e non anche per il periodo successivo. Tal ultimo è, infatti, un obbligo della banca, posto a vantaggio del correntista e costituisce, ovviamente, una fattispecie distinta dalla facoltà della banca di conservare la documentazione relativa al conto, anche al di là dei limiti temporali di operatività del suddetto obbligo. Facoltà di cui la banca è titolare e che è strumentale alla soddisfazione dell'interesse di tal ultima alla ricostruzione dei movimenti di dare e avere inter partes.
D'altra parte, anche in tal caso il principio di vicinanza alla fonte della prova (la banca provvede alla formazione degli estratti conto) deve indurre a porre a carico della banca l'onere della prova e della produzione in giudizio della suddetta documentazione.
Al riguardo, giova premettere che, nel caso in cui, nel corso di un giudizio civile, venga formulata istanza di esibizione documentale ex art. 119 c.p.c., - similmente a quanto già affermato in relazione all'istanza ex art. 210 cpc - la parte nei cui confronti tale istanza è formulata è tenuta a conservare la documentazione oggetto di essa fino a che il giudice non abbia definitivamente e negativamente provveduto sulla stessa, a nulla rilevando che, trattandosi di documentazione contabile, sopravvenga, "medio tempore", la maturazione del termine decennale di durata dell'obbligo di conservazione delle scritture contabili fissato dall'art. 2220 c.c.. Per contro, come noto, nessun obbligo di conservazione oltre il decennio grava invece sulla parte finché la suddetta istanza non sia presentata, con la conseguenza che dalla distruzione della documentazione contabile il giudice può trarre argomenti di prova a norma dell'art. 116 c.p.c. solo se tale distruzione sia avvenuta successivamente alla presentazione della relativa istanza e durante il tempo di attesa della decisione su di essa. (Cassazione civile , sez. I, 28 agosto 2000 , n. 11225).
Ciò premesso, l'assenza di un obbligo di conservazione consente di escludere che dall'omessa conservazione si possano trarre conseguenze di tipo "sanzionatorio" per la banca, ovvero che si possano trarre elementi di prova ai fini del giudizio di fondatezza della pretesa attorea, ma non anche di ritenere sempre e comunque provata la debenza di una determinata somma, nonché la sua liceità.
D'altronde, sotto altro profilo, il principio dell'onere della prova non può essere addotto, nell'ipotesi dell'azione di ripetizione, al fine di addossare al correntista anche la prova di fatti che esulano dal suo onere probatorio, come appunto, l'esistenza di un credito della banca, quale è quello risultante da un saldo negativo; dovendo, per l'appunto, il correntista fornire la prova della sola illiceità delle poste passive che hanno inciso sui singoli saldi del rapporto.
Ne consegue che non risponde ad un principio razionale e condivisibile provvedere all'azzeramento del saldo negativo solo quando sia la banca ad agire al fine di far valere un credito come nell'ipotesi di opposizione a decreto ingiuntivo, richiesto dalla banca in cui la stessa acquista il ruolo di attore sostanziale, o nell'ipotesi - qual è quella di specie - di proposizione di domanda riconvenzionale di accertamento del credito, proposta nell'ambito del giudizio di ripetizione del correntista; per contro, muovendo, nel conteggio, da un saldo negativo quando sia solo l'attore a proporre domande nei confronti della banca.
Sempre per quanto concerne le metodologie di calcolo, la banca ritiene che gli interessi debitori applicati ai conti anticipi nn.04/83 e 08/87 sarebbero stati girocontati sul conto principale n.01/80, per cui la relativa contabilizzazione avrebbe comportato una duplicazione del credito da interessi. Invero, deve ritenersi che gli interessi passivi dei conti anticipi, proprio perché girocontati sull'indicato conto principale non siano stati contabilizzati due volte in quanto per effetto dell'operazione tecnica di giroconto gli interessi e le competenze girocontate "scompaiono", per così dire, dal conto o dai conti anticipi per essere trasferite e, in tal modo, comparire sul solo conto principale, ove restano addebitate, con la conseguenza che il relativo ricalcolo avviene solo una volta.
Capitalizzazione degli interessi debitori.
Ciò premesso, nel merito, si deduce, da parte convenuta, l'esistenza, alla data di entrata in vigore del codice del 1942, di un uso normativo per la capitalizzazione degli interessi nei rapporti bancari.
In ordine alla suddetta questione, merita condivisione l'orientamento granitico, da tempo espresso dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui la clausola di un contratto bancario che preveda la capitalizzazione trimestrale degli interessi dovuti dal cliente - oppure la capitalizzazione, con la suddetta periodicità, praticata in assenza di una preventiva pattuizione - sono illecite in quanto basate su di un uso negoziale e non su un uso normativo. Tale prassi difetta, infatti, del requisito soggettivo dell'opinio iuris che non può formarsi in capo ad una sola parte dei consociati e, cioè, dei banchieri, come invece esige l'art. 1283 c.c.. (cfr. Cass., S.U., 4-11-2004, n. 21095; Cass. 18-9-2003, n. 13739; Cass. 20-8-2003, n. 12222; Cass. 20-2-2003, n. 2593; Cass. 13-6-2002, n. 8442; Cass. 28-3-2002, n. 4498; Cass. 28-3-2002, n. 4490; Cass. 1-2-2002, n. 1281; Cass. 4-5-2001, n. 6263; Cass. 11-11-1999, n. 12507; Cass. 30-3-1999, n. 3096; Cass. 16-3-1999, n. 2374).
La Suprema Corte ha, difatti, chiarito che né le norme del c.c. del 1865 né quelle del codice di commercio del 1882 possono costituire fondamento normativo di un uso che costituisca eccezione alla regola di cui all'art. 1283 c.c.. Né, a fortiori, possono ritenersi, di per sé, dotate di rilievo normativo le raccolte di usi e consuetudini bancarie, anteriori al 1942, a meno che non si dimostri che esse siano fondate su una norma, illo tempore, vigente. Condizione, invero, non soddisfatta nel caso di specie.
Peraltro, la pretesa consuetudine normativa di capitalizzazione trimestrale degli interessi debitori non soltanto era inesistente al momento dell'entrata in vigore del codice del 1942, ma non può ritenersi che possa essersi validamente formata negli anni successivi.
Dalla data di entrata in vigore del Codice Civile alla formulazione delle N.U.B. è possibile rinvenire solo una sentenza (Cfr. 5 ottobre 1953) che esamini il problema dell'anatocismo, ma solo di quello semestrale e non anche di quello trimestrale ( S.C. del 5 ottobre 1953).
Ciò, non equivale ad affermare che, prima del 1942, non fosse conosciuto il fenomeno della cadenza trimestrale nella capitalizzazione dell'interesse debitore, ma deve comunque escludersi che l'inserzione, in alcuni contratti di conto corrente bancario, di una previsione di capitalizzazione trimestrale degli interessi debitori potesse integrare gli estremi dell'uso normativo; potendo, al più, costituire l'indice sintomatico della costituzione di un uso negoziale (art. 1340 c.c.), da ritenersi, comunque, in contrasto con un divieto (quello di anatocismo) imperativamente stabilito dalla legge.
Sono, difatti, elementi dell'uso normativo: 1) la ripetizione uniforme e costante di un dato comportamento (usus); 2) la generale opinione di osservare, così operando, una norma giuridica - (opinio iuris ac necessitatis).
La generalità dei clienti delle banche è convinta, però, non certo di osservare una norma giuridica, ma piuttosto di dover soggiacere ad un contratto che, seppur contrario ai propri interessi, ha comunque necessità di sottoscrivere.
Da ciò l'affermazione per cui le norme bancarie uniformi, predisposte da un'associazione di categoria pianificata alla tutela degli interessi esclusivi delle banche (A.B.I.), non hanno forza normativa (Cass. 26 ottobre 1968, n.3572; Cass. 14 dicembre 1971, n.3638).
L'indirizzo giurisprudenziale innanzi evidenziato risulta ribadito e precisato dalla sentenza n. 21095 del 4 novembre 2004 delle Sezioni Unite della Suprema Corte, le quali hanno sottolineato che le clausole di capitalizzazione trimestrale degli interessi debitori devono ritenersi invalide anche prima di quello che - erroneamente - viene definito come lo storico revirement della S.C. del 1999.
In particolare, in ordine alla communis opinio di validità, a quell'epoca, dell'indicata clausola di capitalizzazione trimestrale, in base all'assunto in virtù del quale ad una consuetudine in tal senso allora vigente sarebbe successivamente subentrata una desuetudine, la Cassazione ha osservato che proprio in epoca di poco anteriore alla suindicata "inversione di rotta", era intervenuta una disciplina alluvionale (si pensi alla legge antiusura), finalizzata a tutelare maggiormente il consumatore dei servizi bancari.
Tale mutamento del quadro normativo avrebbe indotto l'utente del sistema bancario alla ribellione civile e giudiziaria avverso alle pattuizioni anatocistiche, in quanto clausole non negoziate e non negoziabili. Le stesse - già predisposte dalle banche in conformità a direttive delle associazioni di categoria - venivano sottoscritte dalla parte che aveva necessità di fruire del credito bancario e non aveva, quindi, altra alternativa per accedere a un sistema bancario connotato dalla regola del "prendre ou laisser".
Di qui la riconducibilita' ab initio della prassi d'inserimento nei contratti bancari delle clausole in questione ad un uso negoziale e non già normativo. In altri termini, la funzione assolta dalla giurisprudenza dell'epoca deve, coerentemente con la sua funzione istituzionale - essere considerata meramente ricognitiva e mai creativa della regola.
D'altronde - osservava la Suprema Corte nella richiamata sentenza n. 21095/2004 - in tal senso deponeva la sopravvenuta disciplina normativa (D. Lgs. n.342/1999) che era stata dichiarata incostituzionale, sotto il profilo della salvaguardia delle clausole preesistenti, ad opera dall'articolo 25. L'eliminazione dell'eccezionale salvezza e conservazione ope legis delle clausole già stipulate aveva lasciato queste ultime, secondo i principi che reggono la successione delle leggi nel tempo, sotto il vigore delle norme anteriormente in vigore, alla stregua delle quali esse non potevano che essere dichiarate nulle perche' stipulate in violazione dell'articolo 1283 del codice civile.
Errato risulta, infine, il parallelo tra la normativa del conto di corrispondenza ordinario - ove agli artt. 1823, 1825, 1831 e 1833 c.c. è prevista la capitalizzazione degli interessi - e quella del conto corrente, trattandosi di due tipi contrattuali diversi in quanto:
- le rimesse annotate sul primo sono inesigibili ed indisponibili sino alla chiusura del conto essendo destinate alla compensazione con eventuali futuri crediti di controparte, mentre nel secondo il credito disponibile nel conto è sempre quello disponibile sulla base del saldo giornaliero;
- nel conto corrente ordinario le singole rimesse mantengono la loro individualità; nel conto corrente bancario, invece, perdono la loro individualità nel senso che non danno luogo a rapporti di credito/debito autonomi tra loro ingenerando semplici variazioni del saldo disponibile (in tal senso v., da ultimo, cass. 22 marzo 2005 n. 6187).
Affermata l'illiceità della capitalizzazione trimestrale, non può essere accolta la tesi per la quale il pagamento degli interessi anatocistici darebbe luogo ad adempimento di un'obbligazione naturale, difettando il requisito di spontaneità di cui all'art. 2034 c.c., atteso che la capitalizzazione trimestrale è stata vissuta quale oggetto di un'imposizione da parte dell'ente creditizio in omaggio alle direttive provenienti dalle associazioni di categoria.
Né, come precisato dalle Sezioni Unite del 2.12.2010, potrebbe esser condivisa la tesi secondo la quale le ragioni di nullità enucleate con riguardo alle clausole di capitalizzazione degli interessi debitori inerirebbero, in via esclusiva, il profilo della loro periodizzazione trimestrale.
La suddetta giurisprudenza, come già detto, ha escluso di poter ravvisare un uso normativo idoneo a giustificare, nel settore bancario, una deroga ai limiti posti all'anatocismo dall'art. 1283 c.c..
Ciò, non perché abbia posto in dubbio l'esistenza di una consuetudine consistente nel prevedere nei contratti di conto corrente bancari la capitalizzazione trimestrale degli indicati interessi, ma per il più generale motivo dell'inesistenza del requisito della "normatività" di tal pratica.
Sarebbe, di conseguenza, arbitrario trarne la conseguenza che, nel negare l'esistenza di usi normativi di capitalizzazione trimestrale degli interessi debitori, quella medesima giurisprudenza avrebbe riconosciuto, anche solo implicitamente, la presenza di usi normativi di capitalizzazione annuale.
Infatti, usi siffatti prima ancora che difettare di "normatività", non trovano alcun riscontro nella realtà storica e, in particolare, nell'ultimo cinquantennio anteriore agli interventi normativi della fine degli anni novanta del secolo passato.
Siffatto periodo, infatti, è stato caratterizzato da una diffusa consuetudine (non accompagnata, però, dalla opinio iuris ac necessitatis) di capitalizzazione trimestrale, e non anche di capitalizzazione annuale degli interessi debitori.
Nondimeno, tali considerazioni valgono esclusivamente per il periodo anteriore a quello in cui la capitalizzazione trimestrale è divenuta lecita per effetto della Delibera che il CICR ha adottato in ottemperanza dell'art. 120 del dlvo 342 del 1999.
Interessi uso piazza
Per quanto concerne, invece, la clausola che determini il tasso di interesse per relationem, attraverso il riferimento alle condizioni praticate usualmente dalle aziende di credito sulla piazza, giova precisare quanto segue.
È ovvio che la clausola de qua viola il combinato disposto degli art. 1284 e 1346 c.c. che, pur non richiedendo necessariamente l'indicazione in cifre del tasso d'interesse convenuto e potendo essere adempiuto "per relationem", impone, tuttavia, il richiamo per iscritto a criteri prestabiliti e ad elementi, estrinseci al documento negoziale, obiettivamente individuabili, tali da consentire la concreta determinazione del tasso convenzionale.
Al riguardo - e a dimostrazione di un atteggiamento di particolare sfavore del legislatore nei riguardi di clausole o prassi applicative generiche o indeterminate, nella commisurazione degli interessi debitori - giova precisare come l'art. 4 della legge 154/92 abbia introdotto il divieto di rinvio agli usi per la determinazione del saggio di interesse.
Nondimeno, anche anteriormente all'entrata in vigore della legge 154/92, siffatte clausole o prassi venivano colpite con la sanzione della nullità per contrasto con la previsione di cui all'art. 1346 c.c. poiché, riferendosi genericamente agli interessi usualmente praticati su piazza, non distinguevano fra le varie categorie di essi e dunque non consentono di stabilire a quale previsione le parti abbiano in concreto inteso riferirsi (Cass. 1-2-2002, n. 1287; Cass. 18-4-2001, n. 5675; Cass. 19-7-2000, n. 9465; Cass. 8-5-1998, n. 4696; Cass. 23-6-1998, n. 6247; Cass. 9-12-1997, n. 12456; Cass. 10-11-1997, n. 11042; Cass. 29-11-1996, n. 10657).
In ogni caso, seguendo un accreditato orientamento interpretativo, le clausole del tipo in esame stipulate anteriormente all'entrata in vigore della legge 154/92 sarebbero divenute inoperanti a partire dal 9/7/92, data di acquisto dell'efficacia della legge stessa.
Infatti, l'art. 4 della citata legge, poi trasfuso nell'art. 117 del d.lgs. 385/93, laddove sancisce la nullità delle clausole di rinvio agli usi per la determinazione dei tassi di interesse, se non incide, in base ai principi regolanti la successione delle leggi nel tempo, sulla validità delle clausole contrattuali inserite in contratti già conclusi, impedisce tuttavia che esse possano produrre per l'avvenire ulteriori effetti nei rapporti ancora in corso poiché l'innovazione normativa "impinge sulle stesse caratteristiche del sinallagma contrattuale, generatore di conseguenze obbligatorie protraentesi nel tempo" (cfr. Cass., S.U., 4-11-2004, n. 21095; Cass. 18-9-2003, n. 13739; Cass. 20-8-2003, n. 12222; Cass. 28-3-2002, n. 4490; Cass. 2-5-2002, n. 6258).
Invero, la suddetta tesi cui questo Giudice aderisce non è la sola, prospettandosi in sede interpretativa anche la tesi del tempus regit actum (cfr. Cassazione 1° marzo 2007, n. 4853, e Cassazione 21 dicembre 2005, n. 28302; nonché Tribunale ordinario di Cagliari, sentenza 27 maggio 2002, n. 1441, e Tribunale ordinario di Reggio Emilia, sentenza 17 novembre 2001), - cui sembra, seppur implicitamente propendere anche la Corte Costituzionale n. 338 del 2009 - secondo cui il suddetto meccanismo sostitutivo di eterointegrazione non si applicherebbe ai contratti conclusi anteriormente alla entrata in vigore della normativa in materi di trasparenza bancaria.
Ciò in virtù del generale principio di irretroattività desumibile dal combinato disposto degli artt. 11 delle disposizioni sulla legge in generale e 161, comma 6, del testo unico bancario, secondo cui "I contratti già conclusi e i procedimenti esecutivi in corso alla data di entrata in vigore del presente decreto legislativo restano regolati dalle norme anteriori".
Dall'applicazione della prima delle nucleate tesi deriva che al contratto privato della clausola nulla si applicano gli interessi in misura legale e dunque: a) quella calcolata ex art. 1284 c.c. fino all'entrata in vigore della L. n. 154/92 (e quindi fino al 8-7-1992); b) quella calcolata ex art. 5 L. n. 154/92 (e poi ex art. 117 L. n. 385/93) dopo l'entrata in vigore di tale legge (nel caso di specie le norme applicabili ratione temporis sono gli artt. 4 e 5 della legge 154/92 in considerazione della protrazione della loro efficacia operata dall'art. 165 del d.lgs. 385/93 atteso che la delibera del CICR, cui la disposizione fa riferimento, è stata adottata solamente il 4/3/03, con efficacia dall'1/10/03 e, pertanto, solo da quest'ultima data è entrato in vigore l'art. 117 t.u.l.b.); da quel momento infatti la misura legale degli interessi, per i contratti bancari, deve ritenersi quella prevista dalle citate norme stante la specialità di tali disposizioni rispetto alla disciplina generale contenuta dell'art. 1284 c.c..
In conseguenza della ritenuta nullità della clausola contrattuale determinativa del tasso degli interessi trova applicazione il criterio sostitutivo previsto dall'art. 5 l. 154/92 (sostituito poi dall'art. 117 VII co. lett. a del t.u.l.b. avente identico contenuto) e, quindi, il tasso nominale minimo dei B.O.T. annuali emessi nei dodici mesi precedenti ogni chiusura trimestrale del conto trattandosi di operazione attiva. Tale deve qualificarsi quella di erogazione del credito secondo l'elencazione contenuta nell'allegato richiamato dall'art. 2 della l. 154/92 operante in virtù della disposizione di cui all'art. 161 co. T.U.B.
D'altronde, tal ultimo fa, comunque, sempre riferimento, in tutto l'articolato normativo, alla banca come soggetto principale; per cui deve ritenersi che la qualifica di "operazione attiva" debba riferirsi all'istituto di credito.
Del resto, non può nemmeno negarsi che la norma abbia una funzione sanzionatoria, a carico della banca che non ha adempiuto agli obblighi di trasparenza; sanzione che consiste proprio nell'applicazione del tasso MINIMO dei B.O.T. per le operazioni attive per la banca (passive per il cliente) e del tasso MASSIMO dei B.O.T. per le operazioni passive per la banca (attive per il cliente).
Infatti, come si evince dalla relazione di accompagnamento al T.U.B. 385/93, l'eterointegrazione ex lege del regolamento contrattuale, prevedendo l'applicazione di un tasso di interesse nominale minimo dei B.O.T. (emessi nei dodici mesi precedenti la conclusione del contratto) per le operazioni attive (per la banca) ed un tasso di interesse nominale massimo dei B.O.T. per le operazioni passive (per la banca), non fa altro che invertire quella forbice che la banca di solito applica ai clienti (il tasso creditore che il cliente riceve dalla banca è più basso del tasso che lo stesso paga per il prestito del denaro) (cfr. Tribunale Mantova che evidenzia la finalità sanzionatoria della norma del T.U.B. di cui si discute: "In conseguenza della relativa nullità della clausola contrattuale determinativa del tasso degli interessi trova applicazione il criterio sostitutivo previsto dall'art. 5 della L. 154/1992 (sostituito poi dall'art. 117, 7° comma del T.U.B. avente identico contenuto) in quanto norma speciale rispetto all'art. 1284 c.c. e, quindi, il tasso nominale minimo dei B.O.T. annuali emessi nei dodici mesi precedenti ogni chiusura trimestrale del conto trattandosi di operazione attiva (tale dovendosi qualificare quella di erogazione del credito secondo l'elencazione contenuta nell'allegato richiamato dall'art. 2 della legge" (Trib. Di Mantova, sez. II - G.U. Dott. Mauro Bernardi, sent. 16/01/2004 ).
Quanto all'applicabilità dei tassi riferiti ai dodici mesi precedenti ogni chiusura trimestrale del conto, e non di quelli relativi ai dodici mesi precedenti la conclusione del contratto, giovino le seguenti considerazioni.
Invero, una interpretazione strettamente letterale dell'art. 117 del T.U.B. farebbe ritenere che vi sia un unico tasso da applicare al rapporto in mancanza di diversa pattuizione, ossia il tasso BOT dei dodici mesi precedenti la conclusione del contratto.
Ma se è vero che il tasso riferito al momento della conclusione del contratto appare ragionevole per i contratti bancari che contengono un'unica operazione di finanziamento, non altrettanto può dirsi per quelli di durata, ove le operazioni si susseguono nel tempo e vi è la necessità di agganciare la misura degli interessi al costo del denaro con riferimento al momento in cui le operazioni vengono effettuate.
Per tali contratti, risultando il saggio di interesse soggetto a continue modifiche in funzione dei mutamenti del mercato, in via interpretativa si è correttamente ritenuto che il valore minimo e massimo dei BOT debba essere dunque riferito (non al momento della conclusione del contratto, bensì) ai dodici mesi precedenti ogni chiusura dei conti (trimestrale o annuale) (cfr. oltre alle pronunce di questo Tribunale anche Tribunale di Lecce, Sezione distaccata di Maglie, n. 407 del 16 dicembre 2009; Tribunale di Mondovì 17 febbraio 2009).
D'altra parte, una rigida applicazione dei portato letterale dell'art. 117 del T.U.B. condurrebbe a soluzioni irrazionali.
Quindi, l'adeguamento del tasso ad ogni chiusura trimestrale del conto si giustifica alla stregua della considerazione secondo cui la previsione contenuta nell'art. 5 l. 154/92 e poi nell'art. 117 t.u.b. si riferisce ad un contratto contemplante un'unica operazione, e non invece a quello che dà luogo (come nell'ipotesi del conto corrente) ad un rapporto di durata, caratterizzato da molteplici operazioni poste in essere nella continua variazione dei tassi di interesse a causa delle mutevoli condizioni del mercato.
Si deve, inoltre, tenere conto del fatto che la già menzionata finalità sanzionatoria (per la banca), delle predette disposizioni, verrebbe ad essere frustrata in caso di difformità per eccesso fra il tasso calcolato in relazione al rendimento dei B.O.T. emessi nell'anno antecedente alla stipula del contratto e quello in concreto applicato dall'istituto di credito durante il corso del rapporto.
Tale eventualità diviene addirittura una certezza ove si consideri la progressiva caduta, nel corso degli ultimi anni, dei tassi di interesse (fenomeno che ha indotto il legislatore a intervenire in materia di mutui bancari, come si desume dal preambolo al d.l. 29-12-2000 n. 394).
La finalità perseguita dal legislatore con gli artt. 5 l. 154/92 e 117 del T.U.B., d'altro canto, è stata proprio quella di ancorare il tasso sostitutivo degli interessi ad un altro in qualche modo legato all'andamento del mercato dei tassi.
Le medesime considerazioni sono estendibili all'ipotesi di applicazione di interessi ultralegali, senza alcuna previsione al riguardo, neanche di rinvio agli usi piazza.
Deve precisarsi che, nel caso di specie, la banca ha prodotto due fotocopie dei contratti di conto corrente N.9679904-01-80 e N.9679904/07/86 (di seguito indicati, per brevità, con i nn. 01-80 e 07-86).
Premesso che deve ritenersi la validità della pattuizione del tasso debitore ultralegale di cui alla fotocopia del contratto di conto corrente bancario contrassegnato dal n.9679904-01-80, quindi dal nuovo n.967990401/80, deve evidenziarsi come la C.T.U. ha - anche a titolo di interessi debitori ultralegali - evidenziato un credito dell'odierna attrice.
Esclusione dell'applicazione di C.M.S., e di spese di tenuta conto
La c.m.s. è stata diversamente definita come il corrispettivo per la semplice messa a disposizione da parte della banca di una somma, a prescindere dal suo concreto utilizzo, oppure come la remunerazione per il rischio cui la banca è sottoposta nel concedere al correntista affidato, l'utilizzo di una determinata somma, a volta oltre il limite dello stesso affidamento.
Ed invero, occorre premettere che, in genere, i moduli standard utilizzati per la conclusione dei contratti di apertura di credito in conto corrente, pur prevedendo a carico del correntista il pagamento della C.M.S., quantificata in un tasso percentuale, omettono di indicarne il significato e le modalità con cui essa si determina.
Già tale prassi non è priva di conseguenze giuridiche, stante la norma che impone di redigere le clausole predisposte da un operatore professionale in modo chiaro e comprensibile (art. 35 D. L.vo 206/2005).
Sotto altro profilo, la C.M.S. viene giustificata, sul piano causale, quale remunerazione della specifica prestazione della banca, consistente nella messa a disposizione dei fondi oggetto dell'apertura di credito; tale prestazione è distinta da quella relativa alla effettiva erogazione dei fondi, che viene remunerata mediante la corresponsione degli interessi debitori.
Ed, infatti, con sentenza n. 870 del 18 gennaio 2006, la Cassazione ha dato una corretta definizione della c.m.s. definendola come la "remunerazione accordata alla banca per la messa a disposizione dei fondi a favore del correntista indipendentemente dall''effettivo prelevamento della somma".
Contrariamente alla sua natura ed alla definizione che ne dà la Suprema Corte, è, però, invalsa la prassi consistente nel computare la commissione di massimo scoperto in rapporto, non all'ammontare dell'affidamento accordato (e non ancora concretamente utilizzato), ma al massimo saldo debitore del cliente, registrato in un determinato periodo di tempo (in genere, ogni trimestre).
Ne consegue che la misura della C.M.S. è identica, qualunque sia il tempo per il quale quel "massimo scoperto" è stato mantenuto: in altri termini, la commissione avrà lo stesso importo sia che "lo scoperto" sia durato solo un giorno, e sia se lo stesso "scoperto" si sia protratto per tutto il periodo di riferimento.
Da questa modalità di applicazione della C.M.S., discende che il costo effettivo del credito sarà tanto più elevato, quanto più breve è stato il tempo nel quale è stata mantenuta una determinata esposizione debitoria o "scopertura".
Vi è, quindi, una incolmabile contraddizione tra metodologia di calcolo adottata dalla banca e funzione tradizionale della c.m.s..
Orbene, proprio alla luce di ciò e aderendo al modello predominate della causa in concreto, potrebbe sorgere qualche dubbio sulla stessa giustificazione causale della commissione de qua, posto che la sua applicazione concreta si presenta slegata dall'entità del denaro messo a disposizione dell'affidato (della quale, in thesi, dovrebbe formare il corrispettivo), per contro risultando collegata alla somma effettivamente erogata (che già trova una specifica remunerazione negli interessi).
Ecco perché taluna giurisprudenza ritiene invalide le c.m.s., per quanto applicate nei limiti della misura prevista, e ciò - oltre che in virtù della solo eventuale concorrenza al superamento del tasso-soglia antiusura - anche per mancanza di causa (in concreto).
Infatti, la medesima si sostanzierebbe "in ulteriore e non pattuito addebito di interessi corrispettivi rispetto a quelli convenzionalmente pattuiti per l'utilizzazione dell'apertura di credito" (Trib. Milano, n. 8896 del 29.6.2002).
A tal proposito, è stato anche osservato che "la commissione di massimo scoperto, enunciata quale corrispettivo per il mantenimento dell'apertura di credito e indipendentemente dall'utilizzazione dell'apertura di credito stessa, è nulla per mancanza di causa, atteso che si sostanzia in un ulteriore e non pattuito addebito di interessi corrispettivi rispetto a quelli convenzionalmente pattuiti per l'utilizzazione dell'apertura di credito ( Cfr Tribunale Milano, 4 Luglio 2002).
In ogni caso, risulta evidente che, applicata con le modalità descritte, la C.M.S. incide direttamente sul costo effettivo del credito erogato e deve, pertanto, rientrare nel calcolo del TEG, da raffrontare con il c.d. "tasso soglia", oltre il quale il tasso si configura come usurario.
Una diversa determinazione del TEG, ancorchè adottata dalla Banca d'Italia o dall'autorità amministrativa è inaccettabile, in quanto in palese contrasto con gli artt. 1 e 2 della L. 108/96 e pertanto illegittima.
E di tali atti s'imporrebbe la disapplicazione incidenter tantum, perché manifestamente illegittimi.
Ciò premesso - anche a non accedere alla tesi della non giustificabilità causale di tale voce di costo - la commissione di massimo scoperto non può essere riconosciuta in assenza di esplicita convenzione scritta perché sarebbe violata la prescrizione della forma scritta ad sustantiam (sentenza Corte Appello Lecce, 20 febbraio 2001).
Ciò, anche per la sua idoneità a consentire prassi anatocistiche, specie qualora non risulti la specifica determinazione inter partes della sua percentuale o dell'eventuale criterio di calcolo, con conseguente impossibilità di verificare ex post il procedimento di calcolo attraverso cui la banca ha provveduto alla sua determinazione. Né, per contro, integrerebbe il requisito della specifica previsione del costo de quo l'eventuale rinvio ai criteri usualmente praticati dalle Aziende di credito, sulla piazza" in quanto previsione, per quanto su detto, generica e, quindi, nulla.
Peraltro, secondo un orientamento più rigoroso - cui questo giudice non aderisce - l'onere di determinatezza della sua previsione contrattuale dovrebbe essere valutato con particolare rigore, dovendosi esigere, non la mera e generica contemplazione da parte del regolamento contrattuale ma una specifica indicazione di tutti gli elementi che concorrono a determinarla (percentuale, base di calcolo, criteri e periodicità di addebito).
In assenza di tali elementi, non potrebbe ravvisarsi un vero e proprio accordo delle parti su tale pattuizione accessoria, non potendosi ritenere che il cliente abbia potuto prestare un consenso "consapevole", ovvero rendendosi conto dell'effettivo contenuto giuridico della clausola e, soprattutto, del suo "peso" economico.
In mancanza di ciò, l'addebito delle commissioni di massimo scoperto si tradurrebbe in una imposizione unilaterale della banca, che non trova legittimazione in una valida pattuizione consensuale (Sul punto, cfr. Trib. Teramo, 20-06-2011, secondo cui "la commissione di massimo scoperto rappresenta per la banca un elemento retributivo, aggiuntivo rispetto agli interessi praticati, che non ha fonte legale e che richiede pertanto una specifica pattuizione." ; Trib. Genova Sez. VI, 18-04-2011, secondo cui "La commissione di massimo scoperto costituisce la remunerazione accordata alla banca per la messa a disposizione dei fondi a favore del correntista indipendentemente dall'effettivo prelevamento della somma. Tale commissione, tuttavia, non è dovuta se non legittimamente ed espressamente convenuta e, comunque, entro i limiti di quanto stabilito dal contratto. Nel caso in cui nel contratto stipulato tra le parti esista solo un generico richiamo alla commissione di massimo scoperto, senza che sia altresì stabilita alcuna modalità di imputazione, la clausola ad essa facente riferimento deve reputarsi nulla, e va pertanto disapplicata, per essere l'oggetto dell'obbligazione non solo indeterminato ma altresì indeterminabile").
Orbene, sulla base delle risultanze della Ctu, deve ritenersi che la condizione dell'espressa pattuizione, ricorra nel caso di specie solo per quanto concerne il conto principale.
Inoltre, la C.T.U. del 9.12.2011 ha evidenziato come, con riferimento al conto corrente ordinario inizialmente contrassegnato dal n.01-80, le c.m.s., pattuite nella misura dello 0,250%, risultino differenti negli estratti conto (non applicata su una prima parte dell'esposizione massima del trimestre ed, invece, applicata sulla parte eccedente in percentuale più elevata di quella pattuita in contratto) oltre che capitalizzate trimestralmente.
Evidente è, dunque, l'inosservanza, da parte della Banca, di quanto concordato col correntista da cui consegue la necessità di applicare, per conto, la CMS, nella misura pattuita con esclusione di ogni forma di capitalizzazione.
A tanto deve aggiungersi la mancata pattuizione delle c.m.s. relativamente ai conti anticipi collegati al suindicato conto principale, contrassegnati dal n. 9679904-04-83 e n. 9679904-08-87 (di seguito indicati, per brevità, con i nn. 04-83 e 08-87), i cui saldi sono stati girocontati sul suindicato conto principale n. 01-80.
Quanto, invece, al conto anticipi n. 9679904-06-85, le ragioni creditorie della banca, del pari addebitate sul ridetto conto principale n.01-80, sono risultate ridotte, come si evince dalla pag. 20 - terzultimo e penultimo periodo letterale - della C.T.U. del 20.5.2009.
I c.d.d. giorni - banca
La valuta di un'operazione registrata in conto corrente è, come noto, il giorno a partire dal quale la somma corrispondente diventa fruttifera.
Detta valuta coincide, normalmente, con la scadenza dell'operazione.
Si è soliti distinguere tra valuta effettiva, da un lato, in cui il giorno, a partire dal quale la somma corrispondente diventa fruttifera, coincide con quello in cui la banca acquista o perde la disponibilità giuridica delle somme versate o prelevate; e valuta fittizia, dall'altra, che è quella adottata dalla banca e che risulta dall'aggiunta o dalla sottrazione di un certo numero dei c.d. giorni banca alla valuta effettiva.
Pertanto, essa è, da senz'altro, da considerarsi una componente di costo a causa della sua incidenza sulla quasi totalità delle operazioni bancarie, e contribuisce a far lievitare il tasso di interesse effettivo del rapporto.
Tale sistema di computo dei giorni di valuta è stato introdotto uniformemente dall'A.B.I. (Associazione Bancaria Italiana), in virtù di un accordo interbancario, che, pertanto, potrebbe essere ricondotto agli accordi lesivi della concorrenza in danno del contraente più debole, "il cliente".
Successivamente, la valuta ha trovato una dimensione normativa, prima con la legge 154/92 e, dopo, con il T.U.B. n°385/93.
Invero, con la legge sulla trasparenza si è posto un primo limite all'uso, non sempre conforme a buona fede oggettiva, che le banche facevano di tale strumento.
L'art. 7 prevede infatti che "gli interessi sui versamenti presso una banca di denaro, di assegni circolari emessi dalla stessa banca e di assegni bancari tratti sulla stessa succursale presso la quale viene effettuato il versamento sono conteggiati con la valuta del giorno in cui è effettuato il versamento e sono dovuti fino a quello del prelevamento".
Nel T.U.B. (art. 116, comma 1) viene anche introdotto, in ossequio ad un principio di trasparenza, la previsione per la quale la valuta deve formare oggetto di adeguata pubblicità nei confronti della clientela.
È evidente come questo meccanismo sia idoneo a consentire alla banca la maturazione di competenze fittizie in proprio favore e, ovviamente, a discapito del cliente che, se da un lato, vede moltiplicarsi i giorni banca a suo sfavore nei conti attivi per la banca, li vede diminuire in quelli attivi a suo favore, o nell'ambito dello stesso rapporto tra operazioni di versamento o prelievo, con l'inammissibile effetto di protrazione fittizia del presunto debito o decurtazione del periodo di durata del credito.
Lo scarto in più od in meno rappresenta rispettivamente il presunto credito su cui la banca calcola delle fittizie competenze in quanto in effetti non ha mai concesso detto credito, ovvero il predetto scarto costituisce una quota di franchigia a favore della banca sul credito ricevuto dal cliente su cui non viene calcolato alcun interesse a suo favore.
In pratica, la banca concepisce elasticamente i giorni nelle operazioni che le fruttano interessi, mentre sottrae giorni sulle operazioni che fruttano interessi al cliente o comportano una riduzione dei suoi presunti oneri.
Orbene, perché si abbia un computo in valuta effettiva, dovrà tenersi conto che, se per i prelevamenti, la valuta dovrà coincidere con il giorno del pagamento dell'assegno, cioè del giorno in cui la banca perde effettivamente la disponibilità del denaro, per quanto riguarda i versamenti, si dovrà, invece, riportare la valuta corrispondente al giorno in cui la banca acquista effettivamente la disponibilità del denaro.
Deve, inoltre, considerarsi che, secondo un orientamento più radicale, l'addebito di interessi ultralegali nella differenza in giorni-banca tra la data di determinazione della valuta delle singole operazioni in c/c e la data della rispettiva contabilizzazione - se anche convenuto - sarebbe privo di qualsivoglia valida giustificazione causale. Invero, è ormai predominante - si afferma - la prassi delle transazioni commerciali in tempo reale e per via telematica per cui non si comprende il senso dell'antergazione o postergazione delle valute, idonea, invero, a determinare un ingiustificato allungamento della durata contrattuale del rapporto con la consequenziale, quanto ingiustificata, lievitazione degli interessi ed altre commissioni.
Pertanto, secondo un orientamento più radicale, la corrispondente convenzione, in quanto diretta al soddisfacimento di interessi non meritevoli di tutela secondo l'ordinamento giuridico, dovrebbe considerarsi illegittima ed inefficace per violazione degli artt. 1322 e 1418 c.c..
Anche la S.C. ha avuto modo di occuparsi dei giorni di valuta ed ha stabilito che "la banca non è libera di effettuare la registrazione degli accrediti senza limiti di tempo, ma deve a ciò provvedere con la massima rapidità consentita dagli strumenti tecnici disponibili".
Per quanto riguarda la giurisprudenza di merito, la stessa in numerose recenti pronunce ha affermato che "La prassi bancaria, consistente nel far decorrere gli interessi sulle somme addebitate da un giorno diverso da quello di effettivo addebito (c.d. "computo per giorni valuta"), risolvendosi in una surrettizia variazione del saggio degli interessi passivi praticati al cliente, deve essere approvata per iscritto a pena di nullità, ai sensi dell'art. 1284 c.c.. (Trib. Lecce Sez. II Sent., 08-01-2007).
Peraltro, secondo altra tesi che trae spunto dalla prassi negoziale, alla luce della normativa a tutela del consumatore, le clausole che prevedono i cosiddetti giochi di valuta - indipendentemente da un'espressa pattuizione in ordine ai criteri di calcolo ed ai cd. giorni valuta applicabili - sarebbero da ritenersi di natura vessatoria, in quanto accentuerebbero il già ingiustificato squilibrio esistente tra il potere forte della banca e la debolezza del correntista. Tal ultimo sarebbe costretto ad accettare le condizioni imposte dalla banca solo perché inserite nei moduli predisposti dall'istituto di credito, non suscettibili di negoziazione individuale e la cui accettazione e sottoscrizione non costituisce una libera e spontanea adesione, ma un presupposto indefettibile per accedere ai servizi bancari.
Invero, questo Giudice ritiene che la mera previsione dei c.d.d. giorni banca, sia, di per sé, idonea a giustificarne l'applicazione.
Orbene, nel caso di specie, per quanto attiene alla valuta, la stessa non può dirsi validamente pattuita nel conto principale, avendo le parti utilizzato l'espressione, ex art. 7 del contratto base in atti, " valuta data di regolamento".
Espressione che non consente -di per sé di individuare il regolamento al quale le parti abbiano fatto riferimento al momento della sottoscrizione del contratto de quo, donde la nullità della relativa clausola. Lo stesso dicasi per i conti anticipi collegati al suindicato conto principale, e da ultimo contrassegnati,dai nn. 04-83 - 08-87 - 06-85, per i quali manca ogni e qualsivoglia disciplina dei giorni valuta illegittimamente applicati dalla banca, donde la nullità, anche in tal caso, delle relative clausole contrattuali e l'illegittimità dei relativi addebiti.
Per quanto concerne la domanda riconvenzionale, la C.T.U. del 9.12.2011 ha evidenziato un credito per sorte capitale dell'attrice ammontante ad €.145.23561,39 (cfr. Conclusioni del C.T.U., ultima pagina), di cui €.63.559,65 in ragione del conto principale n.01-80, €.14.605,46 in ragione del conto anticipi n.04-83 (cfr. C.T.U. del 9.12.2011, § 2, terzultima pagina, - terzo periodo letterale -) ed €.435.54 in ragione del conto anticipi n.08-87 (cfr. C.T.U. del 9.12.2011 - § 3, penultima pagina - ultimo periodo letterale -).
Il raffronto tra i saldi finali dei tre conti può così essere riesposto:
saldo finale saldo finale
Conto in EC bancari secondo CTU
01-80 - € 2.777,69 + € 85.826,22
04-83 0,00 + € 29.318,29
08-87 0,00 + € 30.086,88
______ __________ ___________
Totale - € 2.777,69 + € 145.231,39
In sintesi, sulla base degli EC bancari il saldo complessivo dei tre conti suindicati risulta a debito del cliente per € 2.777,69.
In base ai criteri che hanno informato la disposta CTU il saldo complessivo dei tre conti risulta invece a credito del cliente per € 145.231,39.
Dalla suddetta somma, occorre detrarre il credito della banca in virtù del conto corrente bancario n.07-86, quantificato dalla C.T.U. del 20.5.2009 in €.57.900,07.
Pertanto, residua un credito dell'attrice di €.87.331,32, da maggiorarsi sia degli interessi legali dalla data di notifica della citazione e, dunque, dal 12.3.2004 fino al giorno del completo soddisfo, che del maggior danno da svalutazione monetaria, già richiesto con l'atto introduttivo del giudizio, dall'indicata data del 12.3.2004 fino al giorno del completo soddisfo.
Al riguardo, giova evidenziare come, in materia di indebito oggettivo, gli interessi e le somme dovute per maggior danno ai sensi dell'art. 1224, secondo comma, cod. civ., decorrono dalla domanda giudiziale, e non già dalla data del pagamento della somma indebita, dovendosi avere riguardo all'elemento psicologico esistente alla data di riscossione della somma, a meno che il creditore non provi la mala fede dell'"accipiens", con la precisazione che, anche in questo campo, la buona fede si presume, ed essa può essere esclusa soltanto dalla prova della consapevolezza da parte dell'"accipiens" della insussistenza di un suo diritto a ricevere il pagamento (cfr. Cass. Sez. 3, Sentenza n. 5330 del 10/03/2005).
Per quanto concerne il quantum, tale maggior danno, di cui all'art. 1224, comma 2, cod. civ. (rispetto a quello già coperto dagli interessi legali moratori non convenzionali che siano comunque dovuti), come noto, deve essere, in via generale, riconosciuto, in via presuntiva, nelle obbligazioni pecuniarie e tal ultimo va commisurato, in difetto di discipline particolari dettate da norme speciali, per qualunque creditore che ne domandi il risarcimento - dovendo ritenersi superata l'esigenza di inquadrare a tale fine il creditore in una delle categorie a suo tempo individuate -, nella eventuale differenza, a decorrere dalla data di insorgenza della mora, tra il tasso del rendimento medio annuo netto dei titoli di Stato di durata non superiore a dodici mesi ed il saggio degli interessi legali determinato per ogni anno ai sensi del primo comma dell'art. 1284 cod. civ. (cfr Cassazione civile, SS.UU., sentenza 16.07.2008 n° 19499).
L'accoglimento della domanda determina la regolamentazione delle spese di giudizio che seguono la soccombenza e vengono liquidate come in dispositivo.
Devono essere poste, in via definitiva, a carico della convenuta le spese della disposta CTU.
P.Q.M.
Il Tribunale, definitivamente pronunciando sulla domanda proposta da Ditta Individuale F. A., in persona del suo legale rappresentante Sig. F. A., nei confronti di B.G. S.P.A., in persona del suo legale rappresentante pro tempore, accoglie la domanda dell'attore, e, per l'effetto, così provvede:
1) accerta e dichiara la nullità parziale del contratto di conto corrente ordinario n. 9679904-01-80, nonché dei contratti che regolano i conti correnti di corrispondenza, accesi dall'attrice presso la Banca convenuta, in relazione ai profili evidenziati in parte motiva;
2) accerta e dichiara che la Ditta Individuale F. A. é creditrice nei confronti della banca avversaria della somma di €. 87.331,32, a titolo di indebito oggettivo, comprensiva di interessi attivi, quale differenza tra l'importo a credito di €.145.231,39 dell'attrice in virtù dei conti correnti bancari nn.01-80, 04-83 e 08-87, ed il minor credito della banca determinato con riferimento al conto corrente n.07-86 e, conseguentemente, condanna la B.G. S.p.A., alla restituzione, in favore dell'attrice, della menzionata somma di €.87.331,32, oltre interessi legali dal 12.3.2004 e, dalla stessa data, il maggior danno da commisurarsi alla eventuale differenza, tra il tasso del rendimento medio annuo netto dei titoli di Stato di durata non superiore a dodici mesi ed il saggio degli interessi legali determinato per ogni anno ai sensi del primo comma dell'art. 1284 cod. civ;
3) condanna la convenuta al pagamento, in favore dell'attrice, delle spese e competenze del presente giudizio, liquidate in complessivi euro 5200,00, di cui euro 320,00 per spese, euro 3680,00 per diritti, ed euro 1200,00 per onorario, oltre Iva e Cap come per legge;
4) pone, definitivamente, a carico della convenuta, le spese della disposta CTU.
Ostuni, 09 agosto 2012
Il Giudice
(Dott. Antonio Ivan Natali)
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
TRIBUNALE DI LECCE
SECONDA SEZIONE CIVILE
Il Tribunale di Lecce, seconda sezione civile, in composizione monocratica, in persona del Giudice Adele Ferraro, ha emesso, la seguente
SENTENZA n. 2523
nella causa civile, iscritta al n. 979 R.G. del 2004
TRA
CARROZZO GINO, rappresentato e difeso dall'Avv. Antonio Tanza ed elettivamente domiciliato nello studio di questi in Lecce alla Via Martiri D'Otranto n. 4
Attore
UNICREDIT BANCA SPA già Credito Romagnolo - Rolo Banca 1473 spa, rappresentato e difeso dall'Avv. Luca Erroi ed elettivamente domiciliato nello studio di questi in Lecce alla Via Trinchese n. 63
Convenuto riconveniente
DEL VECCHIO ANGELA, rappresentata e difesa dall'Avv. Antonio Tanza ed elettivamente domiciliato nello studio di questi in Lecce alla Via Martiri D'Otranto n. 4
Terza chiamata
(…)
Preliminarmente deve affrontarsi la questione relativa alla prescrizione parziale del diritto di ripetizione prospettata da parte convenuta nella comparsa di costituzione; il convenuto ebbe ad eccepire la prescrizione del diritto a richiedere la ripetizione delle somme versate da parte attrice, ai sensi dell'art. 2935 cod. civ., tanto con riferimento alla ricezione degli estratti di conto corrente; ed, infatti, ricevuto l'estratto conto periodico, il cliente avrebbe potuto esercitare da subito il diritto di ripetizione di addebiti ove ritenuti ingiustificati e, pertanto, la prescrizione doveva iniziare a decorrere dal momento in cui il diritto poteva essere fatto valere. Solo nella comparsa conclusionale il convenuto ebbe ad eccepire la prescrizione con riferimento alle rimesse solutorie, neppure indicate, e, a sua detta, effettuate dall'attore, alla luce dei principi espressi dalla Suprema Corte di Cassazione nella decisione del dicembre 2010 n. 24418 per la quale in caso di versamenti in conto corrente aventi carattere solutorio che costituiscono un pagamento è necessario agire in giudizio per la ripetizione entro 10 anni a partire dalla loro annotazione. Non avrebbe, invece, erroneamente il CTU tenuto conto dei pagamenti solutori distinguendoli da quelli ripristinatori, così pervenendo a conclusioni erronee. Orbene, può agilmente evincersi dalla lettura delle difese svolte da parte convenuta in merito alla questione preliminare della prescrizione che essa fondava la propria eccezione esclusivamente in ordine al mancato esercizio del diritto a seguito dell'invio degli estratto conto al cliente e, solo successivamente, con la comparsa conclusionale, ebbe far riferimento alla prescrizione in considerazione alle eventuali rimesse solutore effettuate dal C.- In realtà, deve rilevarsi come parte convenuta non abbia indicato alcuna di tali rimesse né abbia prodotto od indicato la documentazione a sostegno della propria generica eccezione. Sul punto, pertanto, deve rilevarsi come detta eccezione, da rigettarsi sotto il primo profilo prospettato nell'atto introduttivo, debba essere dichiarata inammissibile in ragione del riferimento alle poste solutorie. Ed, infatti, secondo l'orientamento giurisprudenziale costantemente condiviso da questo Tribunale, la mancata contestazione degli estratti conto da parte del cliente rileva solo ai fini del riconoscimento dei movimenti ivi documentati, senza comportare alcun riconoscimento in ordine alla validità dei rapporti sostanziali posti a fondamento delle operazioni compiute; tale mancata contestazione dell'estratto conto trasmesso dalla banca al cliente rende inoppugnabili gli accrediti e gli addebiti unicamente sotto il profilo contabile, restando impregiudicata la facoltà del correntista di contestare la validità e l'efficacia dei rapporti obbligatori sottostanti che hanno dato luogo agli addebiti ed agli accrediti (cfr. più di recente Cass. 11126/2011, 11749/2008, 6514/2007).
Quanto alla questione afferente la prescrizione alla luce della sentenza della Suprema Corte n. 24418/2010, è già stato più innanzi evidenziato come mai, prima della comparsa conclusionale, parte convenuta ebbe ad eccepire la prescrizione delle operazioni effettuate extrafido; inoltre essa mancò di indicare anche in detto atto le operazioni di natura solutoria poste in essere nonché di produrre la documentazione relativa, tanto sebbene gravi in capo alla parte che sollevi l'eccezione di allegarne l'elemento costitutivo e di manifestare la volontà di profittare di detto effetto, indicando od allegando ì versamenti e indicandone gli effetti sul saldo finale; ed, infatti, la genericità dell'eccezione così come concretamente formulata, rende la stessa incomprensibile e non individuabile e da dichiararsi, pertanto, inammissibile.
Essendo al momento dell'introduzione del giudizio il contratto di conto corrente ancora in essere, e, pertanto, per le rimesse ripristinatorie, non essendo neppure iniziato a decorrere il dies a quo della prescrizione, andando esso individuato al momento della chiusura del conto, e per quelle solutorie essendo l'eccezione proposta rimasta priva di ogni e qualsiasi supporto assertivo e probatorio, deve essere rigettata l'eccezione di prescrizione formulata dalla banca convenuta.
La banca, ove eccepisca la prescrizione del credito, ha l'onere di allegare e provare il fatto che, permettendo l'esercizio del diritto, determini l'inizio della decorrenza del termine ai sensi dell'articolo 2935 cod. Civ., restando escluso che il Giudice accolga l'eccezione sulla base di un fatto diverso, conosciuto attraverso un documento prodotto ad altri fini - ad esempio gli estratti conto prodotti del correntista per la ripetizione dell'indebito - da diversa parte in causa. D'altra parte, l'elemento costitutivo dell'eccezione di prescrizione è la manifestazione in modo non equivoco della volontà della parte di far valere l'estinzione, a causa del decorso del tempo, del credito o dei crediti nei suoi confronti azionati; conseguentemente, mentre rileva la precisazione della parte circa i crediti o le parti effettivamente investiti dall'eccezione, la mera prospettazione di una generica tesi giuridica non vincola il giudice circa l'individuazione del tipo di prescrizione da parte dell'interessato né autorizza l'individuazione da parte del giudice del tipo concretamente applicabile, atteso che, da un canto, la prescrizione non è rilevabile d'ufficio, dall'altro, il suo carattere dispositivo comporta, per la parte che la propone, l'onere di tipizzarla, sicché in mancanza delle specifiche indicazioni di fatto necessarie per rendere comprensibile ed individuabile l'eccezione, essa è inammissibile.
Con riferimento alle questione prospettate e relative all'intervenuta prescrizione, le stesse devono essere rigettate.
Passando ad esaminare il merito della vicenda, deve rilevarsi come il rapporto in essere tra le parti, sorto nel 1991 con centrato prodotto in atti, all'art. 7 prevedeva un'indicazione degli interessi a debito del correntista con rinvio agli usi praticati uso piazza; era, infatti, previsto che "gli interessi dovuti dal correntista, alla Banca, salvo patto diverso, si intendono determinati alla condizioni praticate usualmente dalla Banca sulla piazza, e producono a loro volta interessi nella stessa misura".
Orbene, tale clausola è certamente da considerarsi nulla in quanto richiama puramente e semplicemente agli usi di piazza, ai sensi dell'art. 4, comma 3, L. 154 del 1992 ed art. 117 del D.Lvo 385 del 1993 (Così Cass. 14684 del 2.12.2003; 19.7.2000 n. 9465); sul punto la giurisprudenza ha affermato, con orientamento ormai consolidato, che la convenzione relativa alla determinazione degli interessi è validamente stipulata in ossequio al disposto dell'art. 1284, 3 comma, Cod. Civ., quando il relativo tasso risulti determinabile e controllabile in base a criteri in essa oggettivamente indicati e richiamati. La clausola contenente generico richiamo alle condizioni usualmente praticate dalle aziende di credito sulla piazza, potrebbe al più ritenersi univoca se coordinata con l'esistenza di vincolanti discipline fissate su larga scala nazionale con accordi di cartello, ma non anche quando tali accordi contengano riferimento a diverse tipologie di tassi e non consentano di stabilire a quale previsione le parti abbiano inteso fare concreto riferimento. Pertanto, la clausola in parola, rinviando ad accordi di cartello su piazza, senza alcuna atra specificazione, è nulla, non soddisfacendo il criterio della determinazione scritta dell'interesse ultralegale. Più radicalmente deve ritenersi che esso non risulta stipulato per iscritto e, pertanto, si identifica con quello legale, poiché la disposizione dell'art. 1284 comma 3, è norma di carattere cogente la cui violazione può, quindi essere rilevata persino d'ufficio.
Solo successivamente, con le convenzioni concordate a partire dal 28 aprile 1997, relativamente ai contratti di apertura delle linee di credito, vennero pattuiti interessi debitori ed interessi creditori, nonché le commissioni di massimo scoperto, senza prevedere alcuna pattuizione in ordine alle valute ed alle spese.
Pertanto, correttamente il CTU ha proceduto al ricalcolo delle posizioni dare/avere tra le parti, applicando gli interessi debitori al tasso legale sino alla data del 28.4.1997 e, successivamente, nei termini convenuti tra le parti e risultanti dai documenti allegati agli atti di parte convenuta (sub 6, 10,14,18).
Quanto alle commissioni di massimo (scoperto), esse sono state calcolate esclusivamente dal 28.4.1997, data di prima pattuizione; non sono state calcolate le spese in quanto non concordate e cosi i giorni di valuta.
Tali criteri appaiono pienamente condivisibili anche in ragione delle considerazioni più innanzi esposte.
il CTU ha, poi, provveduto al ricalcolo, eliminando la capitalizzazione trimestrale degli interessi. In relazione alla censura relativa alla capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi, va dato atto che, anche alla luce della pronuncia delle Sezioni Unite del 4 novembre 2004 n. 21095, possono dirsi oramai metabolizzati e consolidati gli esiti ai quali è giunto il dibattito generato in dottrina e in giurisprudenza sull'argomento a seguito del revirement operato dalla Suprema Corte con le note sentenze n. 2374 e 3096 del 1999 (relatori, rispettivamente Salmè ed Amatucci). Non può neppure condividersi la difesa sul punto svolta da parte convenuta e per la quale il divieto di anatocismo è fatto salvo ove si accerti l'esistenza di usi contrari. Pacificamente gli usi contrari che qui rilevano non sono i meri usi negoziali di cui all'art 1340 cc, bensì gli usi normativi (o consuetudine) di cui all'art 8 preleggi cod. civ.
, caratterizzati dai due elementi della diuturnitas (o usus), consistente nella ripetizione generale, uniforme, frequente costante e pubblica di un determinato comportamento per un periodo di tempo indeterminato, e dell'opinio iuris ac necessitatis ovvero della consapevolezza della giuridica doverosità della condotta tenuta, in quanto conforme ad una norma che già esiste o che si ritiene debba far parte dell'ordinamento.
Ora, avendo il giudice l'obbligo di conoscere la legge ma non anche gli usi, questi ultimi, ove il giudice non ne sia a conoscenza, debbono essere provati a cura della parte che li allega (cfr. Cass. n. 4853/2007). Rilevato che l'art 9 preleggi sancisce una presunzione iuris tantum di esistenza dell'uso ove esso sia debitamente pubblicato nelle raccolte ufficiali degli enti ed organi autorizzati, va dato atto nell'odierno giudizio che non risulta prodotta alcuna raccolta provinciale degli usi della camera di commercio di Lecce, da cui inferire un uso (normativo) relativo alla capitalizzazione trimestrale. In assenza di tale produzione documentale da parte della banca o di altra prova idonea, il giudice, pur tenuto - ove si accerti l'esistenza dell'uso normativo - all'osservanza del principio iura novit curia, non può essere gravato, nell'ipotesi di inerzia della parte interessata, ad indagare personalmente, disponendo d'ufficio attività istruttorie per accertarne l'esistenza ( in tal senso Cass. n. 15014/2000).
Rimane, dunque, interamente da provare (acclarata l'assenza di presunzioni in tal senso) l'esistenza di un uso normativo relativo alla capitalizzazione trimestrale nel luogo, inteso come piazza commerciale, e nel tempo in cui sono stati conclusi i contratti de quibus.
In particolare, a fronte della previsione di clausole di squilibrio contrattuale, come quelle che ammettono una capitalizzazione a scadenze diverse per banche e clienti, si staglia la presunzione di dissenso del contraente penalizzato, da qui la necessità di una rigorosa verifica della sussistenza dell'opinio iuris.
Tale prova non può essere fornita attraverso il riferimento alle cd. norme bancarie uniformi introdotte dall'ABI con effetto dal I ° gennaio 1952, poiché non vi è dubbio che esse non hanno natura normativa ma pattizia, trattandosi di proposte di condizioni generali di contratto indirizzate alle banche associate.
Né d'altronde la prova di un uso normativo anteriore all'entrata in vigore del codice civile può essere desunta, dalla circolare (30/2545) del 1929 con cui la Confederazione Generale Bancaria Fascista inviava alle banche i moduli contenenti il testo delle norme regolanti i conti correnti di corrispondenza, documento che in sostanza pare riflettere una sorta di accordo interbancario di cartello unilateralmente predisposto dalla Commissione della Confederazione al quale, tutt'al più, sembra doversi attribuire valore di mera ricognizione, proveniente dalle stesse banche, di prassi negoziali, che al massimo riesce a fornire la prova dell'esistenza, già al tempo, di una prassi negoziale (e non normativa) analoga a quella attribuita alle norme bancarie uniformi del 1952.
In sostanza, le tradizionali clausole anatocistiche contemplate nella circolare citata e previste nell'ambito delle n.b.u. rilevano alla stregua di clausole sussumibili nell'ambito della categoria delle condizioni generali del contratto regolate dall'art. 1341 del codice civile.
Le n.b.u. (come già la Circolare del 1929, la quale ad onor del vero esortava le banche ad apprestare un modello contrattuale uniforme, il che lascia intendere come ben potessero esserci istituti di credito che regolassero in maniera difforme i rapporti contrattuali con i clienti) non contemplano norme giuridiche di rango consuetudinario, esse, più semplicemente, costituiscono una sorta di direttiva, elaborata dall'associazione di categoria delle aziende di credito, che traccia gli schemi contrattuali a cui le banche si ispirano nel predispone unilateralmente le condizioni generali del contratto a fronte di un numero indeterminato e vasto di potenziali consumatori-clienti.
Le clausole contenute nel contratto-tipo, compresa quella sulla capitalizzazione trimestrale, non sono suscettibili di negoziazione individuale e, pertanto, la loro sottoscrizione è sostanzialmente imposta a tutti coloro i quali intendono accedere ai servizi bancari. Costoro, infatti, sono posti di fronte alla secca alternativa di accettare in blocco tutte le clausole predisposte (sia pur col più che formale temperamento della doppia sottoscrizione di cui all'art. 1342, collima 2, c.c.) oppure rinunciare completamente alla stipulazione del negozio.
L'atteggiamento psicologico del cliente della banca è stato sempre lontanissimo dalla spontanea adesione ad un precetto giuridico ritenuto vincolante o dalla convinzione di assolvere ad un obbligo giuridico e pertanto non può esservi traccia dell'opinio iuris ac necessitatis, ma solo reiterazione di un comportamento (diuturnitas) per nulla illuminato dalla convinzione della sua giuridicità e doverosità.
In sostanza, non vi è prova di una consuetudine preesistente all'entrata in vigore del Codice Civile che legittimi una capitalizzazione trimestrale degli interessi, ma vi è solo la prova di clausole anatocistiche non negoziate, né negoziabili, imposte dalle banche ai clienti in conformità a direttive previste da associazioni categoriali.
Né, ancora, può dirsi che l'opinio iuris circa l'obbligatorietà della capitalizzazione trimestrale sia confermata dal costante orientamento giurisprudenziale, anteriore al revirement del 1999, generalmente incline ad ammettere la natura di uso normativo alla capitalizzazione trimestrale, si da indurre i consociati a ritenere la doverosità giuridica di tale forma di anatocismo. Non pare, infatti, ragionevolmente sostenibile che il pregresso orientamento nomofilattico della Suprema Corte abbia favorito e/o determinato nei consociati il convincimento della giuridica obbligatorietà delle clausole anatocistiche, ossia proprio quell'opinio iuris che si pretenderebbe mancante.
In proposito si condivide quanto rilevato sul punto dalle S.U. della Cassazione nel novembre 2004 secondo cui la funzione assolta dalla giurisprudenza in materia di usi normativi (allo stesso modo che per le norme di rango primario) non può essere altro che quella ricognitiva dell'esistenza e dell'effettiva portata della norma, e non dunque anche una finzione creativa della regola stessa al punto da conferire normatività ad una prassi negoziale (che si è dimostrato essere) contra legem.
Nella medesima pronuncia si è poi anche chiarito che la nullità delle clausole anatocistiche dei contratti bancari si estende anche a quelle contratte prima del révirement del 1999 in quanto, risultato successivamente inesistente l'uso normativo sulla base del quale la giurisprudenza ante 1999 (e le S.U. sottolineano che, tra l'altro si trattava di "dieci tralatizie pronunce nell'arco di un ventennio") aveva ritenuto possibile la capitalizzazione trimestrale, la successiva ricognizione correttiva del fenomeno non può non avere una portata naturaliter retroattiva, altrimenti si consoliderebbe medio tempore una regola che avrebbe fonte esclusivamente nella giurisprudenza la quale, presupponendola erroneamente, l'avrebbe di fatto creata in sostanziale contrasto con la legge. Ne consegue che, a prescindere dalla potenziale idoneità dell'orientamento giurisprudenziale ante 1999 ad ingenerare nei clienti l'opinio iuris ac necessitatis (idoneità, peraltro, tutta da dimostrare, secondo le stesse S.U.), esso non avrebbe potuto comunque conferire normatività ad una prassi negoziale che, poi, re melius perpensa, è risultata essere contra legem (cfr. la già citata S.U., 4 novembre 2004, n. 21095).
Del resto proprio il d.lgs. n. 342/1999 conferma indirettamente la valenza retroattiva dell'accertamento della nullità delle clausole anatocistiche, con tale provvedimento il legislatore mirava a garantire la validità e l'efficacia delle clausole inserite nei contratti aceri stipulati prima del revirement della Cassazione: un simile intervento non sarebbe o necessario qualora il divieto di capitalizzazione trimestrale non fosse stato retroattivo. Ne deriva la nullità delle clausole anatocistiche già stipulate prima del 1999 per contrasto all'art. 1283 c.c.
In conclusione, il dato di comune esperienza costituito dalla costante accettazione da parte dei clienti all'inserimento della clausola anatocistica nei contratti bancari sottoscritti sui moduli
predisposti dall'ABI, va realisticamente interpretato come forzoso atto di asservimentoo alle condizioni unilateralmente poste dagli istituti di credito su scala nazionale ed insuscettibili di negoziazione, indispensabile per poter accedere al servizio bancario.
Va da sé che un tale atteggiamento sia cosa ben diversa rispetto alla spontanea adesione al precetto giuridico, connotante l'opinio iuris ac necessitatis di cui all'uso normativo.
Non essendo stati forniti elementi idonei a dimostrare l'esistenza di un uso normativo derogatorio al divieto di anatocismo previsto dall'art 1283 c.c., ed in difetto delle condizioni ivi previste, va dichiarata la nulla la clausola relativa alla capitalizzazione trimestrale degli interessi debitori.
Come è noto la disputa relativa alla natura normativa o meno degli usi prevedenti l'anatocismo è stata definitivamente superata dal legislatore con dlgs 342/99 che novellando l'art 120 del TUB ha introdotto il 2° comma legittimante la produzione di interessi sugli interessi nelle operazioni poste in essere nell'esercizio dell'attività bancaria a condizione della pari periodicità nel conteggio degli interessi sia debitori che creditori, demandando al CICR la regolamentazione della materia (il che è avvenuto con la delibera 9.2.2000).
E' altrettanto noto che il tentativo di legittimare l'anatocismo per i contratti stipulati prima della delibera CICR del 2000, attraverso una previsione di salvezza delle clausole anatocistiche inserite nel contratti in essere (prevista nell'art 25 comma 3° dlgs 342/99), è stato reso nullo dalla Corte costituzionale che con sentenza n 425/00 ha dichiarato incostituzionale (per eccesso di delega) l'indicata disposizione transitoria.
La deliberazione CIRC, all'art. 7, prevedeva la necessità che la banca, nel caso in cui le nuove condizioni contrattuali non avessero comportato un peggioramento di quelle precedenti, avrebbe provveduto all'adeguamento delle disposizioni contenute nella deliberazione stessa mediante pubblicazione sulla gazzetta ufficiale, e di tali nuovi condizioni avrebbe fornito al cliente opportuna notizia per iscritto alla prima occasione utile e, comunque, entro il 31.12.2000, mentre se le nuove condizioni avessero comportato un peggioramento di quelle precedenti esse avrebbero dovuto essere approvate dal cliente. Nel caso in esame alcuna sottoscrizione da parte del cliente è stata prodotta agli atti di causa, e, pertanto alcuna capitalizzazione deve esser applicata sino alla fine del rapporto.
In sintonia con l'orientamento espresso dalle sezioni Unite della Cassazione nella decisione n. 24418 del 2010, accertata la nullità della clausola di capitalizzazione trimestrale, gli interessi maturati a carico del debitore devono essere computati senza capitalizzazione alcuna. Tale è il criterio, pur seguito dal CTU nei conteggi effettuati, e che il Giudice ritiene di accogliere, così pervenendo ad un calcolo complessivo di curo 16.751.26 a credito del C.-
Destituita di ogni fondamento è, pertanto, la domanda svolta in via riconvenzionale da parte convenuta, non sussistendo alcun debito dell'attore e della terza convenuta nei confronti dell'Istituto di credito convenuto.
Deve precisarsi come il CTU abbia escluso che nel corso del rapporto gli interessi praticati abbiano mai superato il tasso soglia di cui alla L. 106/98.
Parte convenuta, inoltre, sosteneva la irripetibilità degli interessi ai sensi dell'art. 2034 cod civ. Ed, infatti, riferiva come il pagamento spontaneo di interessi ed accessori, ancorchè in ipotesi non dovuti, costituisse adempimento di obbligazione naturale e, come tale, irripetibile ex art. 2034 cod civ. In realtà sul punto deve richiamarsi il principio espresso ormai pacificamente dalla giurisprudenza (Così Trib. Napoli 30.3.2011, Trib. Pescara 9.2-2011 n. 145 e Tribunale di Brescia 24.1.2011 n. 189) che evidenzia come nelle fattispecie in esame manchi la volontà del pagamento e la spontaneità dello stesso, in altri termini la convinzione di adempiere un dovere morale o sociale; difettando i presupposti di cui all'art. 2034, tale questione deve essere rigettata.
Quanto alla domanda svolta da parte attrice e relativa al risarcimento del danno conseguente all'errata segnalazione alla centrale rischi, detta circostanza non appare provata dall'attrice. Non è stata prodotta, infatti, agli atti di causa alcunché che consenta di evidenziare la effettiva segnalazione effettuata dall'Istituto bancario. Detta domanda svolta da parte attrice deve essere, pertanto, rigettata.
Analogamente quanto alla domanda di nullità della fideiussione prestata da Del Vecchio Angela, deve rilevarsi che dagli atti di causa emerge che venne rilasciata fideiussione omnibus da Del Vecchio Angela in favore del Carrozzo; detta fideiussione del 17.7.1991, non prodotta agli atti del giudizio, è richiamata dalla fideiussione del 28.4.1997 che limitava l'importo della fideiussione a lire 60 milioni, poi aumentati a lire 90 milioni in data 9.2.1998. E' indiscutibile che la norma dell'art. 1938 c.c., nella formulazione introdotta dall'art. 10, comma 1, 1. 17 febbraio 1992 n. 154, non abbia efficacia retroattiva e non si applichi, pertanto, ai rapporti già sorti.
Tuttavia, nel caso di fideiussione omnibus senza limitazione di importo, stipulata anteriormente, ma ancora in corso alla data di entrata in vigore della disposizione da ultimo ricordata, la banca conserva il diritto alla garanzia unicamente per i debiti verso di essa sorti a carico del debitore principale prima di tale data e non anche per quelli successivi (ex multis Cass 18529/07). La garanzia, prestata era pienamente valida nei suddetti limiti, sebbene nel caso in esame, la sussistenza di saldo a credito del correntista debitore principale priva la questione di qualsiasi concreto interesse.
Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo; pone definitivamente a carico di parte convenuta le spese di CTU come liquidate in corso di causa.
PQM
Il Tribunale di Lecce, definitivamente decidendo in ordine alla domanda svolta da C. G. nei conforti di Unicredit Banca spa e da questa nei confronti del primo e di D. V. A., ogni ulteriore questione ed istanza disattesa,
- accerta la nullità della clausola di determinazione degli interessi ultralegali passivi con rinvio agli usi di piazza e di capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi di cui all'art. 7 del contratto di conto corrente già n. 856 (poi n. 20006483 e di seguito rinumerato al n. 715891 e, per l'effetto, dichiara l'illegittimità degli addebiti effettuati sul detto conto corrente a titolo di interessi ultralegali e di anatocismo trimestrale sugli interessi passivi;
- dichiara l'illegittimità degli addebiti effettuati sul medesimo conto corrente per commissioni di massimo scoperto sino al 28.4.1997;
- dichiara l'illegittimità degli addebiti effettuati sul medesimo conto corrente per valuta e spese
- accertato il credito di G. C. nei confronti della Banca convenuta con riferimento al conto corrente n. 856 (poi n. 20006483 e di seguito rinumerato al n. 715891) di euro 16.751,26, condanna Unicredit Banca spa al pagamento in favore di C. G. delle suddette somme con interessi legali dalla domanda e sino all'effettivo soddisfo;
- rigetta ogni ulteriore domanda;
- condanna Unicredit Banca spa al pagamento delle spese di lite in favore dell'attore e che liquida in complessivo curo 4.800,00 di cui euro 200,00 per spese, euro 2.000,00 per diritti ed euro 2.600 per onorari di causa, oltre IVA e CPA e rimborso forfetario come per legge;
- condanna Unicredit Banca spa al pagamento delle spese di lite in favore della terza intervenuta Del Vecchio Angela che liquida in complessivo euro 3.100,00 di cui euro 1.300 per diritti ed euro 1.800 per onorari di causa , oltre IVA e CAP e rimborso forfetario come per legge;
- pone le spese relative all'espletata consulenza tecnica d'ufficio definitivamente a carico di parte convenuta, nella misura liquidata in corso di causa.
Lecce 27.07.2012
Il Giudice
Adele Ferraro
Dep. 13 novembre 2012
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