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Anatocismo e Usura
Cassazione – Su civili – sentenza 7 ottobre-4 novembre 2004, n. 21095
Presidente Carbone – Relatore Morelli - Pm Palmieri – parzialmente conforme –
ricorrente Credito Italiano Spa – controricorrente Carlino ed altri
Svolgimento del processo
Il Credito Italiano Spa ha impugnato per cassazione la sentenza in data 15 gennaio 2001, con la quale la Corte di appello di Cagliari, in riforma della pronunzia di primo grado, ha accolto la opposizione proposta da Franco e Carlino Stefana avverso il decreto ingiuntivo su sua istanza. emesso nei confronti dei due predetti intimati, quali fideiussori della Fas Spa, per l’importo complessivo di lire 1.097.415.300 (ed accessori), corrispondente al saldo passivo finale del conto corrente sul quale sarebbero state effettuate plurime erogazioni di credito in favore della società garantita.
Con le quattro complesse serie di motivi, di cui si compone l’odierno ricorso - la cui ammissibilità e fondatezza è contestata dagli intimati con separati controricorsi - il Credito italiano critica in sostanza la Corte di merito per avere, a suo avviso, errato:
a) nel rilevare di ufficio profili di nullità del contratto da cui trae origine il debito garantito dagli attuali resistenti;
b) nell’escluderne, in particolare, la validità in relazione alla clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi, anche per il periodo anteriore alle note pronunzie della primavera del 1999 (nn. 2374 del 16 marzo, n. 3096 del 30 marzo e successive conformi che, in contrasto con la precedente giurisprudenza, hanno escluso la rispondenza di clausole siffatte ad un “uso normativo” ai sensi dell’articolo 1283 Cc;
c) nel ritenere, inoltre, non operative le garanzie prestate dagli Stefana per il periodo successivo alla data (9 luglio 1992) di entrata in vigore della legge 154/92, che ha prescritto la fissazione di un tetto massimo per la validità delle fideiussioni omnibus;
d) nell’escludere, infine, la debenza dell’intero credito, azionato con il decreto opposto, per ritenuta (a torto) carenza di documentazione, imputabile all’istituto, che consentisse di scorporare dall’importo preteso in via monitoria quello riferibile a periodo di operatività della fideiussione e detrarre, dallo stesso, le voci relative alla capitalizzazione periodica degli interessi.
Su istanza della parte ricorrente, il primo Presidente ha assegnato la causa alle Su, ravvisando, in quella sub b), questione di massima di particolare importanza.
Motivi della decisione
1. La questione di massima, in ragione della cui particolare importanza gli atti della presente causa sono stati rimessi a queste Su, ai sensi dell’articolo 374, cpv, Cpc si risolve nello stabilire se - incontestata la non attualità di un uso normativo di capitalizzazione trimestrale degli interessi a debito del correntista bancario - sia o non esatto escludere anche che un siffatto uso preesistesse al nuovo orientamento giurisprudenziale (Cassazione 2374/99 e successive conformi) che lo ha negato, ponendosi in consapevole e motivato contrasto con la precedente giurisprudenza.
2. È, per altro, preliminare all’esame della riferita questione, quello delle eccezioni pregiudiziali - sollevate, rispettivamente, da Franco e dal Carlino Stefana - di inammissibilità del ricorso “per difetto di specialità della procura alle liti” e “per intervenuto giudicato formale sulla sentenza parziale resa dalla Corte di Cagliari” nel corso del giudizio a quo.
2.1. La prima eccezione - con cui il difetto di specialità, per “assenza di riferimento al giudizio per cassazione e alla sentenza impugnanda”, è (impropriamente), in particolare, riferito, non già alla procura rilasciata al difensore (che tali riferimenti puntualmente, invece, contiene), ma all’atto fonte dei poteri del soggetto che detta procura ha conferito - è infondata.
Si deduce, infatti, in sostanza, dal resistente che la procura speciale non sia nella specie riferibile - come ex articolo 365 Cpc viceversa dovrebbe - alla parte od a chi ha il potere di rappresentarla, in quanto sottoscritta “da un dirigente e non dal legale rappresentante del Credito Italiano ricorrente”.
E tale rilievo non coglie nel segno, dacché il dirigente dell’ente - contrariamente all’avverso assunto - ha conferito il mandato alla odierna impugnazione nella veste appunto di “legale rappresentante” del Credito italiano, così (correttamente) spesa sulla base dello Statuto dell’ente che, all’articolo 29, testualmente prevede che «la rappresentanza anche [e quindi: non solo] processuale della società spetta disgiuntamente al Presidente, ai Vice Presidenti ... nonché ai dirigenti ... con facoltà di designare mandatari speciali per il compimento di determinate operazioni e di nominare avvocati munendoli degli opportuni poteri».
2.2. Del pari destituita di fondamento è anche l’ulteriore eccezione di “giudicato formale interno”, che tale vis preclusiva pretende, con evidente forzatura, di conferire all’ordinanza (del 31 maggio 1999), con la quale la Corte di merito - in via istruttoria e strumentale alla decisione, non certo decisoria - si è limitata invece a nominare un Ctu per l’espletamento di una perizia contabile, volta ad accertare, sulla base degli atti, le singole voci (tra cui quella relativa alla capitalizzazione degli interessi) da cui risultava il complessivo importo per cui la Banca aveva agito in via monitoria.
3. Precede ancora, a questo punto, l’esame del primo motivo del ricorso, con il quale si denunzia la violazione degli articoli 112, 101, 345 Cpc, in relazione all’articolo 1421 Cc, in cui si assume essere incorsa la Corte di appello nel rilevare di ufficio la nullità della clausola anatocistica. Atteso che, con tal mezzo, si introduce un tema di indagine logicamente preliminare, e virtualmente assorbente, rispetto a quello sostanziale sulla validità o meno della clausola stessa nel periodo che qui viene in rilievo.
Il vizio in procedendo, così prospettato, ad avviso di questo Collegio, però, non sussiste.
La nullità della clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi (tardivamente dedotta dalle parti solo in comparsa conclusionale), effettivamente è stata, infatti, rilevata “di ufficio” nella fase di gravame. Ma ciò la Corte di Cagliari ha fatto in corretta applicazione del principio per cui la nullità, in tutto o in parte, del contratto posto a base della domanda può essere rilevata, appunto, di ufficio,anche per la prima volta in appello (cfr. Cassazione 2772/98).
È pur vero, per altro, che il potere che il citato articolo 1421 conferisce in tal senso al giudice (in ragione della tutela di valori fondamentali dell’ordinamento giuridico) va coordinato con il principio della domanda, di cui agli articoli 99 e 112 Cpc, e che le esigenze a tali principi sottese - rispettivamente di verifica delle condizioni di fondatezza della azione e di immodificabilità della domanda - possono trovarsi tra loro in contrasto ove, in particolare, alla pretesa di una parte relativa ad un credito ex contractu si contrapponga l’eccezione di nullità, dell’altra, che il giudice ritenga (come nella specie) di integrare con il rilievo di aspetti della patologia del negozio che la parte, interessata alla improduttività dei correlativi effetti, non abbia colto (o non abbia tempestivamente comunque dedotto).
Ma un tale contrasto si risolve sulla base della considerazione che, se da un lato, il potere-dovere decisionale del giudice, in relazione alla domanda proposta, si estende agli aspetti della inesistenza o della nullità del contratto dedotto dall’attore, la deduzione in tal senso del convenuto non può costituire, od essere considerata, domanda giudiziale, non ponendosi in rapporto genetico con il potere-dovere decisionale del giudice sul punto, che già esiste.
Sia impostata quella deduzione come eccezione, come domanda riconvenzionale per la declaratoria di nullità, o come motivo di gravame, si tratta pur sempre di mera difesa, attenendo all’inesistenza, per mancato perfezionamento o per nullità, del fatto giuridico, il contratto, dedotto dall’attore a fondamento della domanda, che dunque non condiziona l’esercizio del potere officioso di rilievo della nullità fondata su aspetti distinti di patologia negoziale (Cassazione 5341/84).
Nella specie deve farsi riferimento alla domanda iniziale, proposta in via monitoria dal Credito italiano la quale, se pur rivolta nei confronti dei fideiussori, ha comunque ad oggetto il pagamento del saldo del contratto di conto corrente, stipulato dal debitore principale. Per cui, appunto, non vale a paralizzare la rilevabilità, da parte del giudice, dì aspetti di nullità di quel contratto il fatto che gli intimati (aventi veste sostanziale di convenuti nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo) abbiano focalizzato, in particolare, le loro difese su profili, di invalidità ed inoperatività della fideiussione, da essi prestata. E ciò a prescindere dalla considerazione che, eccependo comunque anche l’inesistenza di valida prova del credito contro di loro azionato, i fideiussori hanno con ciò contestato in radice lo stesso debito principale.
4. Può ora passarsi all’esame della questione di massima di cui retro, sub 1.
4.1. Il parametro di riferimento è costituito dall’articolo 1283 del Cc (Anatocismo) e, in particolare, dall’inciso “salvo usi contrari” che, in apertura della norma, circoscrive la portata della regola, di seguito in essa enunciata, per cui «gli interessi scaduti possono produrre interessi [(a)] solo dalla domanda giudiziale o [(b)] per effetto di convenzione posteriore alla loro scadenza, e sempre, che si tratti di interessi dovuti da almeno sei mesi».
4.2. Come è noto, in sede di esegesi della predetta norma, le richiamate sentenze (2374, 3096, 3845) della primavera del 1999, ponendosi in consapevole e motivato contrasto con pronunzie del ventennio precedente (6631/81; 5409183; 4920/87; 3804/88; 2444/89; 7575/92; 9227/95; 3296/97; 12675/98), hanno enunciato il principio - reiteratamente, poi, confermato dalle successive sentenze 12507/99; 6263/01; 1281, 4490, 4498, 8442/02; 2593, 12222, 13739/03, ed al quale ha dato comunque immediato riscontro anche il legislatore (che, con l’articolo 25 del D.Lgs 342/99 ha, all’uopo, ridisciplinato le modalità di calcolo degli interessi su base paritaria tra banca e cliente) – (principio) per cui gli “usi contrari”, idonei ex articolo 1283 Cc a derogare il precetto ivi stabilito, sono solo gli usi “normativi” in senso tecnico; desumendone, per conseguenza, la nullità delle clausole bancarie anatocistiche, la cui stipulazione risponde ad un uso meramente negoziale ed incorre quindi nel divieto di cui al citato articolo 1283.
4.3. Al di là di varie ulteriori argomentazioni, di carattere storico e sistematico, rinvenibili nelle pronunzie del nuovo corso, destinate più che altro ad avvalorare il “revirement” giurisprudenziale, emerge dalla motivazione delle pronunce stesse come, nel suo nucleo logico-giuridico essenziale l’enunciazione del principio di nullità delle clausole bancarie anatocistiche si ponga come la conclusione obbligata di un ragionamento di tipo sillogistico. La cui premessa maggiore è espressa, appunto, dalla affermazione che gli “usi contrari”, suscettibili di derogare al precetto dell’articolo 1283 Cc, sono non i meri usi negoziali di cui all’articolo 1340 Cc ma esclusivamente i veri e propri “usi normativi”, di cui agli articoli 1 e 8 disp. prel. Cc, consistenti nella ripetizione generale, uniforme, costante e pubblica di un determinato comportamento (usus), accompagnato dalla convinzione che si tratta di comportamento (non dipendente da un mero arbitro soggettivo ma) giuridicamente obbligatorio, in quanto conforme a una norma che già esiste o che si ritiene debba far parte dell’ordinamento giuridico (opinio juris ac necessitatis).
E la cui premessa minore è rappresentata dalla constatazione che «dalla comune esperienza emerge che i clienti si sono nel tempo adeguati all’inserimento della clausola anatocistica non in quanto ritenuta conforme a norme di diritto oggettivo già esistenti o che sarebbe auspicabile fossero esistenti nell’ordinamento, ma in quanto comprese nei moduli predisposti dagli istituti di credito, in conformità con le direttive dell’associazione di categoria, insuscettibili di negoziazione individuale e la cui sottoscrizione costituiva al tempo stesso presupposto indefettibile per accedere ai servizi bancari. Atteggiamento psicologico ben lontano da quella spontanea adesione a un precetto giuridico in cui, sostanzialmente, consiste l’opinio juris ac necessitatis, se non altro per l’evidente disparità di trattamento che la clausola stessa introduce tra interessi dovuti dalla banca e interessi dovuti dal cliente».
4.4. Ora di questo sillogismo, che costituisce la struttura portante del nuovo indirizzo, del quale si sollecita il riesame, neppure la banca ricorrente mette in discussione la premessa maggiore, mentre quanto alla sua premessa minore la contestazione che ad essa si muove, attiene, sul piano diacronico, al solo profilo della portata retroattiva che il nuovo indirizzo ha inteso attribuire alla rilevata inesistenza di un uso normativo in materia di capitalizzazione trimestrale degli interessi bancari.
Si sostiene, infatti, in contrario che la giurisprudenza del ‘99 abbia correttamente accertato l’inesistenza attuale, ma erroneamente escluso l’esistenza pregressa della consuetudine in parola. E si auspica per ciò, dunque, che essa vada superata nel senso di constatare che «la convinzione degli utenti del servizio bancario della normatività dell’uso di capitalizzazione trimestrale degli interessi, originariamente sussistente, è venuta meno dopo lungo tempo» [id est: la consuetudine si è estinta per desuetudine in relazione al venire meno della opinio iuris del comportamento sottostante] «proprio a seguito di quello stesso processo di mutamento di prospettiva che ha indotto la Cassazione medesima a mutare il proprio precedente orientamento».
Ed a sostegno di tale assunto la difesa della ricorrente argomenta:
a) che l’opinio iuris della prassi di capitalizzazione degli interessi dovuti dal cliente sarebbe stata esclusa dalla criticata giurisprudenza assumendo a parametro un quadro normativo, come evolutosi a partire dai primi anni ‘90, non certo retrodatabile all’epoca in cui, in un contesto radicalmente diverso, quella prassi si era instaurata, con adesione degli utenti dei servizi bancari, che ne avrebbero pienamente presupposto la normatività;
b) che, comunque, la stessa precedente giurisprudenza che per un ventennio aveva reiteratamente ritenuto, ove pur erroneamente, l’esistenza di un uso normativo di capitalizzazione degli interessi bancari avrebbe, per ciò stesso, costituito “elemento di fondazione o consolidazione dell’uso stesso”.
Nessuno dei riferiti, pur suggestivi, argomenti si lascia però condividere.
4.5. L’evoluzione del quadro normativo - impressa dalla giurisprudenza e dalla legislazione degli anni ‘90, in direzione della valorizzazione della buona fede come clausola di protezione del contraente più debole, della tutela specifica del consumatore, della garanzia della trasparenza bancaria, della disciplina dell’usura ha innegabilmente avuto il suo peso nel determinare la ribellione del cliente (che ha dato, a sua volta, occasione al revirement giurisprudenziale) relativamente a prassi negoziali, come quella di capitalizzzione trimestrale degli interessi dovuti alle banche, risolventesi in una non più tollerabile sperequazione di trattamento imposta dal contraente forte in danno della controparte più debole.
Ma ciò non vuole dire (e il dirlo sconterebbe un evidente salto logico) che, in precedenza, prassi siffatte fossero percepite come conformi a ius e che, sulla base di una tale convinzione (opinio iuris), venissero accettate dai clienti.
Più semplicemente, di fatto, le pattuizioni anatocistiche, come clausole non negoziate e non negoziabili, perché già predisposte dagli istituti di credito, in conformità a direttive delle associazioni di categoria, venivano sottoscritte dalla parte che aveva necessità di usufruire del credito bancario e non aveva. quindi, altra alternativa per accedere ad un sistema connotato dalla regola del prendere o lasciare. Dal che la riconducibilità, ab initio, della prassi di inserimento, nei contratti bancari, delle clausole in questione, ad un uso negoziale e non già normativo (per tal profilo in contrasto dunque con il precetto dell’articolo 1283 Cc), come correttamente ritenuto dalle sentenze del 1999 e successive.
4.6. Né è in contrario sostenibile che la “fondazione” di un uso normativo, relativo alla capitalizzazione degli interessi dovuti alla banca, sia in qualche modo riconducibile alla stessa giurisprudenza del ventennio antecedente al revirement del 1999.
Anche in materia di usi normativi, così come con riguardo a norme di condotta poste da fonti-atto di rango primario, la funzione assolta dalla giurisprudenza, nel contesto di sillogismi decisori, non può essere altra che quella ricognitiva, dell’esistenza e dell’effettiva portata, e non dunque anche una funzione creativa, della regola stessa.
Discende come logico ed obbligato corollario da questa incontestabile premessa che, in presenza di una ricognizione, pur reiterata nel tempo, che si dimostri poi però erronea nel presupporre l’esistenza di una regola in realtà insussistente, la ricognizione correttiva debba avere una portata naturaliter retroattiva, conseguendone altrimenti la consolidazione medio tempore di una regola che troverebbe la sua fonte esclusiva nelle sentenza che, erroneamente presupponendola, l’avrebbero con ciò stesso creata.
Ciò vale evidentemente, nel caso di specie, anche con riguardo alla giurisprudenza (costituita, per altro, da solo dieci tralaticie pronunzie nell’arco di un ventennio) su cui fa leva l’istituto ricorrente.
La quale - a prescindere dalla sua idoneità (tutta da dimostrare e in realtà indimostrata) ad ingenerare nei clienti una “opinio iuris” del meccanismo di capitalizzazione degli interessi, inserito come clausola insuscettibile di negoziazione nei controlli stipulati con la banca - non avrebbe potuto, comunque, conferire normatività ad una prassi negoziale (che si è dimostrato essere) contra legem.
4.7. Della insuperabile valenza retroattiva dell’accertamento di nullità delle clausole anatocistiche, contenuto nelle pronunzie del 1999, si è mostrato subito, del resto, ben consapevole anche il legislatore. Il quale - nell’intento di evitare un prevedibile diffuso contenzioso nei confronti degli istituti di credito - ha dettato, nel comma 3 dell’articolo 25 del già citato D.Lgs 342/99, una norma ad hoc, volta appunto ad assicurare validità ed efficacia alle clausole di capitalizzazione degli interessi inserite nei contratti bancari stipulati anteriormente alla entrata in vigore della nuova disciplina, paritetica, della materia, di cui ai precedenti commi primo e secondo del medesimo articolo 25.
Quella norma di sanatoria è stata, però, come noto, dichiarata incostituzionale, per eccesso di delega e conseguente violazione dell’articolo 77 Costituzione, dal Giudice delle leggi, con sentenza n. 425 del 2000.
L’eliminazione ex tunc, per tal via, della eccezionale salvezza e conservazione degli effetti delle clausole già stipulate lascia queste ultime, secondo i principi che regolano la successione delle leggi nel tempo, sotto il vigore delle norme anteriormente in vigore, alla stregua delle quali, per quanto si è detto, esse non possono che essere dichiarate nulle, perché stipulate in violazione dell’articolo 1283 Cc (cfr. Cassazione 4490/02).
4.8. Sul punto della rilevata nullità della clausola anatocistica inserita nel contratto da cui deriva il credito azionato in via monitoria dall’istituto, la sentenza impugnata resiste dunque a censura.
5. Non diverso esito hanno anche le residue due doglianze formulate dal Credito ricorrente.
5.1. In particolare la denuncia di violazione degli articoli 1367 Cc e 10 legge 154/92 - con la quale si addebita alla Corte territoriale di avere erroneamente escluso che per le fideiussioni stipulate in data anteriore alla legge 154 cit. il tetto massimo di garanzia, che ne condiziona l’ulteriore validità, possa essere anche “unilateralmente” fissato dalla Banca, come nella specie, l’istituto in concreto avrebbe fatto con lettera del 1976 - si scontra contro l’accertamento in fatto, operato dai giudici a quibus, quanto alla riferibilità di quella missiva a fideiussione diversa da quelle azionate nel presente giudizio. Dal che propriamente l’inammissibilità della censura in esame per difetto di interesse.
5.2. A sua volta, anche la statuizione conclusiva della sentenza d’appello - secondo cui non era risultato, nella specie, possibile l’accertamento del credito azionato nei confronti dei fideiussori “per non avere l’istituto assolto pienamente al suo onere probatorio” - si sottrae al sindacato di legittimità, come sollecitato nella parte finale del ricorso, per la sua attinenza all’area delle valutazioni, relative alle risultanze probatorie, riservate alla discrezionalità di giudizio del giudice del merito.
Né l’istituto ricorrente può fondatamente sostenere che la rilevazione di ufficio, solo in fase di appello, della questione di nullità della capitalizzazione degli interessi lo abbia ostacolato nella sua attività difensiva. Poiché la Corte territoriale - al fine di accertare quanto effettivamente dovuto alla banca (con detrazione delle voci indebite) - ha disposto apposita Ctu e, nel corso delle operazioni peritali, l’istituto ha avuto evidentemente modo di documentare (cosa che secondo i giudici a quibus non ha fatto in modo compiuto) le proprie ragioni creditorie.
6. Il ricorso va integralmente, pertanto, respinto.
7. La stessa particolare rilevanza della questione centrale, prospettata con l’odierno ricorso, costituisce giusto motivo di compensazione tra le parti di questo giudizio di cassazione.
PQM
La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese.
Illegittimità della pattuizione ed applicazione della capitalizzazione trimestrale dell’interesse composto alla luce della Giurisprudenza della Suprema Corte e delle Sezioni Unite nella Sentenza n. 21095 del 4 novembre 2004
(dell’Avv. Antonio TANZA - adusbef@studiotanza.it)
Il formulario base del contratto adottato dalla totalità delle banche per regolare il rapporto di apertura di credito con affidamento mediante scoperto su c/c, stabilisce altresì l’addebito di interessi composti o anatocistici sugli interessi primari (art. 73: “gli interessi dovuti dal correntista … producono a loro volta interessi nella stessa misura”), capitalizzati nei singoli periodi trimestrali di contabilizzazione del rapporto (art. 72: “i conti che risultino, anche saltuariamente, debitori vengono chiusi contabilmente, in via normale, trimestralmente e cioè a fine marzo, giugno, settembre dicembre”).
Tale pattuizione è nulla e improduttiva di ogni effetto per violazione del disposto di cui agli artt. 1283 c.c., e 14182 c.c.-
Corte di Cassazione Civile, Sez. I, 1 ottobre 2002, n. 14091 ha statuito che: “La clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi dovuti dal cliente di una banca è nulla in quanto essa non risponde ad un uso negoziale (e non normativo), ancorché la clausola stessa sia nello specifico contratto, dichiarata conforme alle “norme bancarie uniformi” (giacché anche queste costituiscono usi negoziali).”
Nel senso della nullità della convenzione di capitalizzazione trimestrale dell’interesse composto, per violazione degli artt. 1283 e 14182 c.c., si confrontino, tra le altre, Cass. Civ. 18 settembre 2003, n. 13739; Cassazione Civile, Sez. I, 1 ottobre 2002, n. 14091; Corte di Cassazione, Sezione I, 28 marzo 2002 n. 4498; Corte di Cassazione, Sezione I, 28 marzo 2002 n. 4490;Corte di Cassazione, Sezione I, 1° febbraio 2002 n. 1281; Corte di Cassazione, Sezione I, 11 novembre 1999 n. 12507; Corte di Cassazione, Sezione III, 30 marzo 1999 n. 3096; Trib. Monza 21 febbraio 1999; Trib. Busto Arsizio, 15 giugno 1998; Trib. Vercelli 21 luglio 1994; Pret. Roma 11 novembre 1996, ecc..
Le sopra citate pronunce hanno dunque affermato l'inesistenza di un uso normativo idoneo a derogare ai limiti di ammissibilità dell'anatocismo previsti dall'art. 1283 c.c., ossia l'ipotesi di interessi dovuti per almeno sei mesi, ovvero la proposizione di una domanda giudiziale (che ne determina anche la decorrenza) o il perfezionamento di una convenzione successiva alla scadenza degli interessi stessi.
E’ noto infatti che l’anatocismo, o interesse composto, ovvero la produzione indefinita di interessi sugli interessi degli interessi, è consentita esclusivamente nel caso in cui a tal fine sia stata presentata specifica domanda giudiziale oppure sia stata stipulata idonea convenzione posteriore di almeno sei mesi alla loro scadenza.
Nel caso in esame, la convenzione anatocistica, preventiva e trimestrale, potrebbe essere consentita, ai sensi dell’art. 1283 c.c., solo in presenza di un uso normativo che espressamente preveda la preventiva pattuizione della capitalizzazione trimestrale degli interessi scaduti.
NON ESISTE, tuttavia, un uso normativo, anteriore, né posteriore, all’entrata in vigore del vigente codice civile del 1942, il cui contenuto consenta la pattuizione preventiva della capitalizzazione trimestrale degli interessi non ancora scaduti: non si può confondere l’uso con l’abuso.
Successivamente all’entrata in vigore del codice civile, non potranno essersi formati validamente (in quanto contra legem) altri usi normativi rispetto a quelli già esistenti al momento di entrata in vigore del codice.
La pretesa consuetudine normativa di capitalizzazione trimestrale degli interessi non soltanto è inesistente al momento dell’entrata in vigore del codice del 1942, ma necessariamente non può neanche ritenersi che tale consuetudine possa essersi validamente formata anche negli anni successivi.
D’altra parte, le prime N.U.B. in tema di conto corrente (si tratta di un gruppo di 15 condizioni elaborate dall’ABI), adottate dal 1° gennaio 1952, prevedevano, per la prima volta, la capitalizzazione trimestrale degli interessi debitori[1], né nel 1942 era operante la Confederazione Generale Bancaria Fascista.
Gli stessi usi, registrati dalle Camere di Commercio in sede provinciale, in un momento antecedente o concomitante sia con quello della entrata in vigore del codice civile che delle “condizioni generali uniformi di banca” in tema di conto corrente, nulla prevedevano circa la chiusura e la capitalizzazione trimestrale dei conti debitori a favore delle banche[2].
Dalla data di entrata in vigore del codice civile alla formulazione delle N.u.b., è nota una sola sentenza che abbia esaminato il problema dell’anatocismo, ma quello semestrale e mai quello trimestrale, e precisamente quella della S.C. del 5 ottobre 1953[3].
Con questo non si vuole assolutamente affermare che la cadenza trimestrale dell’interesse anatocistico fosse sconosciuta prima del 1942: è storicamente provato che, in quei rari contratti che prevedevano la capitalizzazione composta, si convenissero varie cadenze (quella trimestrale, semestrale, annuale, ecc..). e che non vi fosse un particolare uso normativo.
L’inserzione nei contratti bancari di conto corrente, ed in altri, di una previsione di capitalizzazione trimestrale non costituisce, com’è a tutti noto, un uso normativo ma al massimo potrebbe costituire una tendenza (dettata dall’imposizione di un contraente forte) verso la costituzione di un uso negoziale (art. 1340 c.c.), la cui formazione peraltro non si sarebbe mai compiuta, considerato il contrasto di questa clausola con il divieto imperativamente stabilito dalla legge.
Gli elementi dell’uso normativo sono due: l’uno, esteriore, costituito da un mero fatto consistente nella ripetizione uniforme e costante di un dato comportamento (usus), l’altro, psicologico, costituito dalla generale opinione di osservare, così operando, una norma giuridica – (opinio iuris ac necessitatis).
La generalità dei clienti delle banche è convinta, non certo di osservare una norma giuridica, ma di sottoscrivere un contratto predisposto dal contraente forte, fitto di clausole vessatorie dannose al contraente debole che, però, ha necessità di sottostare al sistema bancario.
Le norme bancarie uniformi, predisposte da un’associazione di categoria pianificata alla tutela degli interessi esclusivi delle banche (A.B.I.), non hanno forza normativa (Cass. 26 ottobre 1968, n.3572; Cass. 14 dicembre 1971, n.3638).
Infine, chi invoca l’operatività dell’uso deve fornire la prova della sua esistenza e del suo contenuto (Cass. 6 dicembre 1972, n. 3533), non essendo il giudice tenuto a ricorrere a fonti estranee alla sua scienza ufficiale, né tanto meno ad indagini personali involgenti l’esercizio di attività istruttorie non richieste dalle parti (Cass. 17 maggio 1976, n. 1742).
Vi è, al contrario, prova ufficiale dell’inesistenza dell’uso normativo anatocistico (trimestrale, semestrale o annuale) dalla semplice lettura degli usi nazionali, ovvero “Accertamenti camerali delle consuetudini ed usi locali al 30 giugno 1961” , rilevati dalla Direzione Generale del Commercio presso il Ministero dell’Industria e del Commercio (cfr. www.adusbef.it)
L’art. 25 D.Lgs. 04/08/1999 n. 342 (pubblicato in Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana del 4 ottobre 1999 n. 233, ed entrato in vigore il 19 ottobre 1999), recante modifiche all’art. 120 D.Lgs. 01/09/1993 n. 385 (Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia - T.u.b.), è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo, relativamente al solo 3 comma, con sentenza n. 425 del 17 ottobre 2000 che evidenziava vizi di forma: è ovvio, che detta rilevata carenza formale non può non interessare l’intero art. 25 e, quindi, anche il comma 2 che regola detto istituto con l’eliminazione del precedente “doppio binario”[4].
Infine, è in ogni caso opportuno rilevarsi che è nulla la clausola contrattuale secondo cui il meccanismo della capitalizzazione ai danni dell’utente continua ad operare anche dopo la cessazione del rapporto (ad es. revoca), e fino alla data di estinzione del debito (si confronti, da ultimo, Cass. Civ., Sez. I, 17 aprile 1999 n. 3845; Trib. Lecce 8 ottobre 1997).
In altri termini, la previsione di anatocismo (indipendentemente dalla circostanza che sia trimestrale o annuale) riguarda solo ed unicamente la fase in cui il conto corrente bancario è aperto e funzionante, perché solo in quella fase, secondo quanto previsto dagli usi, la banca può capitalizzare gli interessi debitori.
Infatti, se il rapporto contrattuale é cessato (revoca dell’affidamento), la causa non esiste, o per difetto originario oppure per difetto funzionale (ad es. risoluzione): il persistere della capitalizzazione (già di per sé illegittima) dopo tale cessazione, anziché espressione di una apprezzabile funzione economico - sociale, sarebbe mero anatocismo, non consentito per gli usi contrattuali, ed in particolare non legittimato dall’art. 7, comma 4, delle norme ABI (o da altre pattuizioni analoghe), che costituisce convenzione anteriore, e non posteriore (art.1283 c.c.), alla scadenza degli interessi primari.
Inoltre, l’interesse di mora applicato su un rapporto revocato costituisce un illegittimo anatocismo, quanto meno nella parte del credito costituito da interessi.
L’indirizzo Giurisprudenziale, così consolidato, è stato ribadito ed ampliato dalla sentenza n. 21095 del 4 novembre 2004 delle Sezioni Unite della Suprema Cortecce ha sottolineato l’operativita’ della retromarcia del 1999, cioe’ ha sottolineato che le clausole di capitalizzazione trimestrali dovessero ritenersi invalide anche prima dello storico revirement della S.C. del 1999. Inoltre la sentenza delle Sezioni unite n. 21095 sottolinea come possa venir dichiarata la nullita’ di una clausola anotocistica, benche’ la relativa questione fosse stata tardivamente sollevata dalle parti, giungendo alla risposta affermativa, su basi di vari precedenti che affondano nella regola della rilevabilita’ anche d’ufficio delle cause di nullita’ del contratto.
Le Sezioni unite hanno anche affrontato il problema di un’assunta communis opinio di validita’ della clausola all’epoca per cui, a una consuetudine in tal senso allora vigente, sarebbe subentrata soltanto dopo una desuetudine. Gli argomenti proposti a sostegno di tale tesi bancaria non hanno convinto i Supremi giudici, i quali osservano che proprio in epoca di poco anteriore all’inversione di rotta c’era stato un rimescolio anche legislativo (si pensi se non altro alla legge antiusura), nel senso di accordar maggior tutela al consumatore dei servizi bancari.
Ma soprattutto sottolineano che nel periodo antecedente di fatto le pattuizioni anatocistiche come le clausole non negoziate e non negoziabili perche’ gia’ predisposte dalle banche in conformita’ a direttive delle associazioni di categoria venivano sottoscritte dalla parte che aveva necessita’ di fruire del credito bancario e non aveva quindi altra alternativa per accedere a un sistema bancario connotato dalla regola del "prendere o lasciare".
Dal che la riconducibilita’ ab initio della prassi d’inserimento dei contratti bancari delle clausole in questione a un uso negoziale e non gia’ normativo. La funzione assolta dalla giurisprudenza dell’epoca non fu nulla piu’ che ricognitiva e mai pero’ creativa della regola. Una ricognizione, pur reiterata, ma risultante poi erronea nel presupporre l’esistenza di una regola, non puo’ infatti avere una portata creativa, tanto piu’ — osserva la sentenza — che si tratta di dieci decisioni nell’arco di un ventennio. Ben lungi dunque dal conferire normativita’ a una prassi negoziale che si e’ dimostrata poi essere contra legem.
D’altronde—osserva la sentenza n. 21095 — a tale conclusione si arriva sulla base normativa (Dlgs 342/1999) essendo stata dichiarata incostituzionale la salvaguardia delle clausole preesistenti recata dall’articolo 25: l’eliminazione dell’eccezionale salvezza e conservazione delle clausole gia’ stipulate lascia quest’ultime, secondo i principi che reggono la successione delle leggi nel tempo, sotto il vigore delle norme anteriormente in vigore, alla stregua delle quali esse non possono che essere dichiarate nulle perche’ stipulate inviolazione dell’articolo 1283 del Codice civile.
In ultimo, va sottolineato, come alla nullità dell’anatocismo trimestrale non è consentito supplire con altra tipologia di capitalizzazione composta (in tal senso Appello Torino, Sez. III Civ., sentenza n. 64 del 21 gennaio 2002 – edita in www.studiotanza.it ; Tribunale di Brindisi, sentenza del 13 maggio 2002[5]; Corte d’Appello di Milano, Sez. III Civ., sentenza n. 1142 del 04 aprile 2003).
Lecce, 04 novembre 2004 Avv. Antonio TANZA (Vicepresidente ADUSBEF Onlus)
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[1] Il testo è riportato da Balossini, Gli usi di banca e borsa in Italia , Milano, 1962, 349.
[2] Vedi la deliberazione n. 223 del 5 novembre 1952, della camera di commercio di Trapani e delibera n. 8 del 23 ottobre 1933 della camera di Commercio di Catania, entrambe riportate da Balossini, Gli usi di banca e borsa in Italia , cit., 1962, 364 - 388.
[3] In Banca, borsa, tit. cred, 1954, II, 301.
[4] Il diverso sistema di capitalizzazione tra banca e cliente (trimestrale a favore della banca ed annuale a favore del cliente), denominato “doppio binario”, è stato eliminato da detto secondo comma creando una serie di disfunzioni che, nella sostanza, non hanno mutato la posizione del contraente debole.
[5] Tribunale di Brindisi, sentenza del 13 maggio 2002, in Foro Italiano, 2002, pagg. 1887 e ss., con nota redazionale adesiva.
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