Avv. Antonio Tanza - Vicepresidente ADUSBEF


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Ordinanza Rimessione

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TRIBUNALE DI LECCE
R.G. n. 3696/2013
PROMOSSO DA

i Sig. ri ......, rappresentati e difesi dall' Avv. ......., ed elettivamente domiciliati nello studio di questi in .................;

CONTRO

il Sig. A. T., rappresentato e difeso dall'Avv. Antonio TANZA, ed elettivamente domiciliato nello studio di questi in Lecce, alla via Martiri d'Otranto n°6;

In fatto

Con atto di pignoramento presso terzi depositato in data 05.08.2013, i signori M. esponevano di essere creditori del signor Alfred T, in virtù di sentenza n° 133/2012 del Tribunale di Lecce, sez. distaccata di Galatina, del 01.06.2012, nonché del successivo atto di precetto notificato il 10/11.05.2013, della somma complessiva di € 3.475,34, oltre interessi e spese legali successive.
Citava pertanto il sig. T e una serie di banche con sede in Galatina, a comparire dinanzi al Tribunale di Lecce, sez. distaccata di Galatina, all'udienza del 08.10.2013.
Si procedeva al pignoramento, ai sensi dell'art. 546 comma 1 cpc, sino alla concorrenza dell'importo € 5.213,00 delle somme depositate a qualsiasi titolo su conti, certificati di deposito, libretti di risparmio o equipollenti intestati al sig. T.
Il sig. T si costituiva in data 10.01.2014, opponendosi all'esecuzione mobiliare ex art. 615, comma 2, cpc.
Si evidenziavano profili di incostituzionalità, che inducevano questa Autorità giudicante a riservarsi in merito.
Ciò posto, essendo evidente la rilevanza della questione di costituzionalità ai fini della adozione dei provvedimenti istruttori e decisori della causa civile in esame, appare opportuno svolgere brevemente i motivi di diritto in base ai quali questo organo giudicante ritiene costituzionalmente illegittima l'impugnata norma.
Motivazioni di diritto
Dagli atti di causa, nonché dai documenti allegati, si evince che il pignoramento che ha coinvolto il sig. T Alfred abbia interessato la Tlità del patrimonio mobiliare, costituito solo dall'indennità mensile di disoccupazione.
Recenti sentenze di merito e interventi legislativi hanno posto all'attenzione degli operatori del diritto il tema della pignorabilità di stipendi, pensioni e altri trattamenti economici, nelle ipotesi in cui detti emolumenti confluiscano in un conto corrente, perdendo così la loro originaria natura.
La materia è stata ed è disciplinata nel rispetto di un principio consolidato. Data la funzione alimentare riconosciuta in tutto o parte a detti emolumenti, essi sono cedibili e pignorabili entro un certo limite, classicamente identificato nel "quinto" della somma.
Questa salvaguardia, peraltro, è stata messa in discussione da tempo, sull'assunto che, con l'accredito in conto corrente bancario o postale, la somma perda l'originaria qualificazione, confondendosi nella "massa" di liquidità che costituisce il credito del correntista nei confronti della banca, come tale aggredibile da parte di un creditore terzo.
La questione, già presente con il diffondersi dell'accredito volontario, è diventata di particolare attualità con l'introduzione dell'obbligatorietà di detto accredito, prevista dal decreto 201/2011 (integrato dal successivo decreto 16/2012).
Sul punto, allo stato attuale, la giurisprudenza maggioritaria ha ritenuto che la confluenza nel conto corrente faccia perdere alla somma in questione l'identità originaria, sicché il meccanismo del "quinto" opererebbe solo qualora il terzo creditore agisca nei confronti del soggetto debitore della pensione o stipendio.
Così di recente, in sede di merito, il Tribunale di Napoli, con ordinanza del 28 maggio 2013, ha ribadito tale tesi secondo la quale "la natura previdenziale della somma viene meno con il suo versamento in un conto corrente bancario dando luogo a un nuovo e diverso rapporto".
Anche il Tribunale di Sulmona, nella sua ordinanza del marzo 2013, riprende l'indirizzo prevalente, in tema di perdita della specificità delle somme riscosse in pensione, con la loro confluenza nel restante patrimonio dell'interessato.
Queste pronunce dei giudici di merito hanno preso le mosse dall'impostazione, palesemente iniqua e discutibile sotto il profilo della costituzionalità, che ha trovato compiuta declinazione nella Sentenza della Corte di Cassazione n. 17178 del 9 ottobre 2012, e riguardante crediti da lavoro:
"qualora le somme dovute per crediti di lavoro siano già affluite sul conto corrente o sul deposito bancario del debitore esecutato, non si applicano le limitazioni al pignoramento previste dall'articolo 545 cod. proc. civ."

Corollario di tale differente ed iniqua impostazione sarebbe, come apertamente dichiarato dai giudici di legittimità, che il creditore possa arrivare a "prosciugare" il conto corrente del suo debitore, lasciandolo dunque privo di qualsivoglia tutela.
Solo nel caso di pignoramento presso il datore di lavoro varrebbero dunque le garanzie previste, appunto, per i crediti da lavoro, venendo meno qualora le somme corrispondenti alla retribuzione siano confluite in un conto corrente bancario.
A parziale correzione di questa argomentazione lo stesso Tribunale di Sulmona, nella summenzionata sentenza, ha ritenuto, però, che la natura privilegiata del rateo pensionistico permane anche se esso è accreditato su di un conto corrente o un libretto di deposito purché:
"la natura del credito sia immediatamente riconoscibile per denominazione ed importo e purché non vi siano, all'attivo, voci diverse dall'accredito della pensione ovvero prelievi subito dopo il deposito della somma. a titolo di pensione".
Tale ultima e peculiare ipotesi, certamente presente, allo stato degli atti, nella fattispecie oggetto di giudizio, è stata dunque appena delineata da una parte della giurisprudenza e appare decisamente più in armonia rispetto al dettato costituzionale (in primis con l'art. 38 Cost.), tant'è che trova pieno conforto nelle più recenti statuizioni sul punto della giurisprudenza costituzionale.
Va detto, altresì, che sul piano delle prassi amministrative una "correzione di tiro" è venuta proprio dall'ente della riscossione, Equitalia, il cui Direttore generale, nel sottolineare per primo la perversità del meccanismo scaturito dall'obbligo di apertura del conto corrente, ha evitato di pignorare somme sui conti correnti dei pensionati, a prescindere ed in attesa di una soluzione legislativa del problema.
Tale opzione, successivamente imposta anche dall'art. 3 comma 5 del successivo decreto legge n. 16/2012 convertito in legge n. 44/2012, su cui di seguito ci si soffermerà, sembra confermare dunque una discrasia all'interno del sistema, a seguito di questi due interventi legislativi.
Il tema, già noto agli operatori del diritto più attenti, andava invece affrontato con equilibrata attenzione agli interessi e alle aspettative di tutte le parti in causa, specie con riferimento ai conti rispetto ai quali appaiono evidenti ed agevoli le possibilità di definirne la fonte (pensione, stipendio altri trattamenti economici equivalenti) e le singole operazioni in entrata/uscita.
La stessa Corte costituzionale, come sarà successivamente specificato, aveva già richiamato l'attenzione sulla necessità di tenere conto delle legittime aspettative dei creditori, operando, per l'appunto, un adeguato bilanciamento degli interessi in gioco.
L'ipotesi particolarmente problematica è dunque quella riguardante la pignorabilità di detti emolumenti da parte del creditore che vada alla fonte dell'emolumento, con meccanismi d'intervento che trovano una disciplina specifica nel codice e in leggi speciali oltre che nella ricostruzione operata per i vari istituti dalla giurisprudenza.
Non può ignorarsi tra l'altro il disposto dell' art. 545 c.p.c, il quale stabilisce che le somme dovute dai privati a titolo di stipendio, salario o altre indennità relative al rapporto di lavoro o di impiego comprese quelle dovute a causa di licenziamento, possono essere pignorate nella misura di un quinto per i tributi dovuti allo Stato, alle province e ai comuni, ed in eguale misura per ogni altro credito.
Attorno a questa norma base è stato costruito un complesso sistema, che brevemente si ripercorre.
Per le pensioni il decreto 1827 del 1935 stabiliva che: "Le pensioni, gli assegni e le indennità, spettanti in forza del presente decreto, non sono cedibili, né sequestrabili, né pignorabili, eccezione fatta per le pensioni, che possono essere pignorate soltanto nell'interesse di stabilimenti pubblici ospitalieri o di ricoveri per il pagamento delle diarie relative, e non oltre il loro importo".
Una previsione chiaramente ispirata al favor pro misero, prevedendo come sola eccezione la necessità di erogare il dovuto corrispettivo a soggetti che si facessero carico dell'assistenza e ricovero del pensionato. A distanza di oltre trenta anni l'articolo 69 della Legge 153/1969 ha arricchito l'area delle eccezioni prevedendo che "le pensioni, gli assegni e le indennità possono essere ceduti, sequestrati e pignorati nei limiti di un quinto del loro ammontare, per debiti verso l'INPS derivanti da indebite prestazioni percepite a carico di forme di previdenza gestite dall'Istituto stesso, oppure da omissioni contributive".
Il sistema, in ogni caso, rimaneva consolidato nella preminenza dell'interesse del percettore dell'emolumento pubblico.
Va dato atto, dunque, che entrambe le leggi analizzate dalla parte, vale a dire il decreto legge n. 201/2011, successivamente convertito in legge n. 214/2011 (c.d. "salva-Italia"), e DL n. 16 del 2012, convertito in legge n. 44/2012 (c.d. "decreto semplificazioni"), si pongono in incomprensibile discontinuità, sotto il profilo della ratio, rispetto alla tradizionale visione del legislatore, presentando conseguentemente macroscopiche criticità, sulle quali è opportuno soffermarsi.
In particolare, i principi costituzionali che risultano essere violati dalle specifiche disposizioni normative in esame sono quelli di cui agli artt. 38 (diritto al mantenimento ed all'assistenza sociale) e 3 (principio di uguaglianza) della Costituzione.
1. E' bene evidenziare, innanzitutto, l'art. 12 comma 2 lett. c) della legge 214/2011, il quale ha stabilito che:
"lo stipendio, la pensione, i compensi comunque corrisposti dalla pubblica amministrazione centrale e locale e dai loro enti, in via continuativa a prestatori d'opera e ogni altro tipo di emolumento a chiunque destinato, di importo superiore a cinquecento euro, debbono essere erogati con strumenti diversi dal denaro contante ovvero mediante l'utilizzo di strumenti di pagamento elettronici bancari o postali, ivi comprese le carte di pagamento prepagate. Il limite di importo di cui al periodo precedente può essere modificato con decreto del Ministero dell'economia e delle finanze".

L'iniquità sostanziale del sistema elaborato è di agevolissima individuazione.
In sostanza può accadere che la pensione mensile o la busta paga mensile, se superiore a 1.000,00 euro venga versata direttamente sul conto corrente del pensionato o del dipendente, e chi deve riscuotere un credito può rifarsi direttamente, senza alcun limite, sul denaro che il soggetto detiene sul conto, quindi anche su tutta la pensione o tutto lo stipendio.
Ciò avviene, è importante precisare, nonostante il conto corrente bancario o postale si presenti come un prospetto analitico in cui ogni voce "in entrata" ed "in uscita" è distinta dall'altra, oltre che facilmente identificabile.
Incostituzionalità art. 12 comma 2 lett. c) l. 214/2011, per violazione art. 38 Cost.
Come correttamente rilevato dalla parte, la disposizione di cui all'art. 12 comma 2 lett. c) della legge 214/2011 si pone in contrasto, in prima istanza, con l'art. 38 della Costituzione.
La giurisprudenza costituzionale manifesta, a questo riguardo, un orientamento consolidato.
La sentenza n. 506/2002 della Corte Costituzionale descrive efficacemente il valore solidaristico dell'art. 38 della Costituzione e, conseguentemente, i limiti che tale principio ha posto al legislatore in materia.
"L'art. 38, secondo comma, Cost. è certamente norma che - sancendo il diritto dei lavoratori, in caso di infortunio, malattia, invalidità, vecchiaia e disoccupazione involontaria, a che siano "preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita" - si ispira a criteri di solidarietà sociale e "di pubblico interesse a che venga garantita la corresponsione di un minimum", il cui ammontare è ovviamente riservato all'apprezzamento del legislatore (così la sentenza n. 22 del 1969).

E' ben vero che il pubblico interesse - in cui si traduce il criterio di solidarietà sociale - a che il pensionato goda di un trattamento "adeguato alle esigenze di vita" può, ed anzi deve, comportare - oltre che un dovere dello Stato (da bilanciarsi, in primis, con le esigenze della finanza pubblica: ordinanza n. 342 del 2002) - anche una compressione del diritto di terzi di soddisfare le proprie ragioni creditorie sul bene-pensione, ma è anche vero che tale compressione non può essere Tle ed indiscriminata, bensì deve rispondere a criteri di ragionevolezza che valgano, da un lato, ad assicurare in ogni caso (e, quindi, anche con sacrificio delle ragioni di terzi) al pensionato mezzi adeguati alle sue esigenze di vita e, dall'altro lato, a non imporre ai terzi, oltre il ragionevole limite appena indicato, un sacrificio dei loro crediti, negando alla intera pensione la qualità di bene sul quale possano soddisfarsi.

E' sufficientemente chiaro, dunque, che il legislatore costituente, nel prevedere l'art. 38, ha immaginato una costruzione giuridica che, in nome di ineliminabili principi di solidarietà sociale, imponga limiti ben determinati, rispettivamente in capo al legislatore ordinario (nel rapporto con i cittadini) e al creditore pignorante (nei rapporti inter privatos).
Fondamentale, anche perché richiamata in tutte le sentenze successive sul punto (in misura diversa, sent. 44/2005; sent. 256/2006; sent. 183/2009), è la sentenza n°506/2002, che, rivolgendosi sia alle pensioni erogate dall'I.N.P.S., così come quelle proprie del settore pubblico (I.N.P.D.A.P.), ha confermato la pignorabilità delle pensioni - nella consueta misura del quinto - per ogni credito, da determinarsi "sulla parte aggredibile del trattamento in quanto eccedente le esigenze minime di vita del pensionato (diversamente, la parte necessariamente destinata a soddisfare tali esigenze, resta sottratta ad ogni pretesa esecutiva)" .
Nella medesima sentenza, a proposito della determinazione della quota di pensione idonea a soddisfare le esigenze minime vitali, la Consulta ha stabilito che
"non rientra nel potere della Corte Costituzionale, ma in quello discrezionale del legislatore, individuare in concreto l'ammontare della (parte di) pensione idoneo ad assicurare "mezzi adeguati alle esigenze di vita" del pensionato, come tale legittimamente assoggettabile al regime di assoluta impignorabilità".

Si concorda, inoltre, con la parte nel rilevare che, pronunciandosi in materia di trattamenti previdenziali nei termini sopra menzionati, le statuizioni di cui sopra, siano pacificamente applicabili anche alle indennità di disoccupazione, ancorchè con specifico riferimento al limite di pignorabilità di un quinto dell'emolumento, che in questa sede costituisce l'unico oggetto di attenzione. Quanto appena detto assume ancora più valore razionale, se si tiene conto che gli emolumenti in questione (indennità ASPI) presentano caratteri di precarietà, temporaneità e finalità di sostentamento ancora più marcati (tant'è che lo stesso legislatore costituente a farne espressa menzione, equiparandoli alle pensioni nell'art. 38 Cost).
da un lato, infatti, l'art. 38, secondo comma, Cost. enuncia un precetto che, quale espressione di un principio di solidarietà sociale, ha come destinatari anche (nei limiti di ragione) tutti i consociati, dall'altro, l'art. 36 Cost., --- secondo quanto questa Corte ha statuito nelle ricordate decisioni (n. 5) - indica parametri ai quali, nei rapporti lavoratore-datore di lavoro, deve conformarsi l'entità della retribuzione, senza che ne scaturisca, quindi, vincolo alcuno per terzi estranei a tale rapporto, oltre quello - frutto di razionale "contemperamento dell'interesse del creditore con quello del debitore che percepisca uno stipendio" (sentenze n. 20 del 1968 e 38 del 1970) - del limite del quinto della retribuzione quale possibile oggetto di pignoramento. (sempre sent. Corte Cost. n° 506/2002)

Proseguendo nella rilettura del sistema, si può notare come la Corte Costituzionale fosse già intervenuta, precedentemente alla sentenza n. 506/2002, con la pronuncia n. 468/2002.
Con la prima sentenza la Corte Costituzionale aveva ulteriormente ribadito il principio secondo cui le pensioni, le indennità che ne tengano luogo e gli assegni sono pignorabili fino alla concorrenza di un quinto, valutato al netto di ritenute, per tributi dovuti allo Stato, alle province e ai comuni, facenti carico, fino dalla loro origine, al pensionato.
Rispetto alla conclusione della prima delle due sentenze, la n. 506/2002 va dunque oltre sul piano sistematico, descrivendo sostanzialmente i termini in cui l'art. 38 Cost. impone il bilanciamento tra gli interessi contrapposti del creditore, da una parte, e del soggetto in ristrettezza economica, dall'altra.
A questo riguardo la sentenza così recita:
Il presidio costituzionale (art. 38) del diritto dei pensionati a godere di "mezzi adeguati alle loro esigenze di vita" non è tale da comportare, quale suo ineludibile corollario, l'impignorabilità, in linea di principio, della pensione, ma soltanto l'impignorabilità assoluta di quella parte di essa che vale, appunto, ad assicurare al pensionato quei "mezzi adeguati alle esigenze di vita" che la Costituzione impone gli siano garantiti, ispirandosi ad un criterio di solidarietà sociale: e, pertanto, ad un criterio che, da un lato, sancisce un dovere dello Stato e, dall'altro, legittimamente impone un sacrificio (ma nei limiti funzionali allo scopo) a tutti i consociati (e segnatamente ai creditori)".

Del resto, sebbene, come sopra evidenziato, recentemente pare manifestarsi il contrario, questa impostazione trova comunque riscontro nella giurisprudenza ordinaria, anche di legittimità (Cass. 11 giugno 1999, n. 5761), la quale ritiene rilevabile d'ufficio, "l'impignorabilità di pensioni di modesto importo (quale, nel caso di specie, di invalidità)."
Incostituzionalità art. 12 comma 2 lett. c) l. 214/2011, per violazione art. 3 Cost (principio di ragionevolezza).
Sotto l'aspetto della difformità di trattamento che si viene a determinare, a seguito dell'entrata in vigore della summenzionata novella legislativa, tra pignoramento effettuato presso il datore di lavoro/ente previdenziale e quello operato sulla medesima somma accreditata su conto corrente, il riferimento non può che essere quello dell'art. 3 della Costituzione.
Come rilevabile dalle varie relazioni annuali della Suprema Corte, sin dai suoi primi anni di attività, il parametro di cui all'art. 3 della Costituzione ha assunto un ruolo di preminenza nei giudizi di legittimità costituzionale.
Ciò in quanto, l'eguaglianza, come affermato nella sent. n. 25/1966, "è principio generale che condiziona tutto l'ordinamento nella sua obbiettiva struttura", nonché, secondo la sent. n. 204 del 1982, "canone di coerenza [...] nel campo delle norme di diritto"
In realtà, la lettura che la giurisprudenza della Corte ha dato del principio di eguaglianza - inteso in senso sia formale, quale regola della forza e dell'efficacia della legge, sia sostanziale, quale regola del contenuto della stessa -ha portato ad enucleare anche un generale principio di ragionevolezza, alla luce del quale la legge deve regolare in maniera uguale situazioni uguali ed in maniera razionalmente diversa situazioni diverse, con la conseguenza che la disparità di trattamento trova giustificazione nella diversità delle situazioni disciplinate: "il principio di eguaglianza è violato anche quando la legge, senza un ragionevole motivo, faccia un trattamento diverso ai cittadini che si trovino in eguali situazioni" (sent. n. 15 del 1960), poiché "l'art. 3 Cost. vieta disparità di trattamento di situazioni simili e discriminazioni irragionevoli" (sent. n. 96/1980).
Così, stando a quanto si osserva leggendo le pronunce che hanno affrontato il parametro di cui all'art. 3 Cost., il principio in oggetto "deve assicurare ad ognuno eguaglianza di trattamento, quando eguali siano le condizioni soggettive ed oggettive alle quali le norme giuridiche si riferiscono per la loro applicazione" (sent. n. 3/1957), con la conseguenza che il principio risulta violato "quando, di fronte a situazioni obbiettivamente omogenee, si ha una disciplina giuridica differenziata determinando discriminazioni arbitrarie ed ingiustificate" (sent. n. 111 del 1981).
Pertanto, il giudizio ex art. 3 Cost. si articola in due momenti, il primo destinato a verificare la sussistenza di omogeneità fra le situazioni poste a confronto "quel minimo di omogeneità necessario per l'instaurazione di un giudizio di ragionevolezza" (sent. n. 209 del 1988), il secondo, subordinato all'esito affermativo del precedente, destinato a stabilire se sia razionale o meno la diversità di trattamento predisposta per le stesse dalla legge.
Se, infatti, "la valutazione della rilevanza delle diversità di situazioni in cui si trovano i soggetti dei rapporti da regolare non può non essere riservata alla discrezionalità del legislatore" (sent. n. 3 del 1957), tale discrezionalità non può trascendere i limiti stabiliti dal primo comma dell'art. 3 Cost..
Quindi, "si ha violazione dell'art. 3 della Costituzione quando situazioni sostanzialmente identiche siano disciplinate in modo ingiustificatamente diverso, mentre non si manifesta tale contrasto quando alla diversità di disciplina corrispondano situazioni non sostanzialmente identiche" (sent. n. 340 del 2004).
Illuminante appare sul punto la lettera della sent. n. 163 del 1993: "il principio di eguaglianza comporta che a una categoria di persone, definita secondo caratteristiche identiche o ragionevolmente omogenee in relazione al fine obiettivo cui è indirizzata la disciplina normativa considerata, deve essere imputato un trattamento giuridico identico od omogeneo, ragionevolmente commisurato alle caratteristiche essenziali in ragione delle quali è stata definita quella determinata categoria di persone.
Incostituzionalità art. 3 comma 5 legge n. 44/2012, per violazione artt. 38 e 3 Cost.

2. La seconda disposizione normativa, sulla quale si avanzano perplessità in relazione ai medesimi profili di incostituzionalità già analizzati, è l'art. 3 comma 5 del decreto legge n. 16/2012, convertito in legge n. 44/2012, che ha aggiunto, nel D.p.r. n. 602/1973, in materia di pignoramento presso terzi disposto dall'agente della riscossione, l'art. 72-ter:
"Le somme dovute a titolo di stipendio, di salario o di altre indennità relative al rapporto di lavoro o di impiego, comprese quelle dovute a causa di licenziamento, possono essere pignorate dall'agente della riscossione:
a) in misura pari ad 1/10 per importi fino a 2.500,00 euro;
b) in misura pari ad 1/7 per importi da 2.500,00 a 5.000,00 euro".
"Resta ferma la misura di cui all'articolo 545, comma 4, del codice di procedura civile, se le somme dovute a titolo di stipendio, di salario o di altre indennità relative al rapporto di lavoro o di impiego, comprese quelle dovute a causa di licenziamento, superano i cinquemila euro".

Si può sottolineare il medesimo ordine di considerazioni già effettuato, in relazione alla violazione degli artt. 38 e 3 Cost.
Con particolare riferimento al principio di ragionevolezza, il principio in parola, racchiuso nell'art. 3 Cost. (anche in conformità di quello sovranazionale UE e CEDU cui quello interno è tenuto a conformarsi), impone il rispetto del più generale dogma della coerenza organica.
Rispetto a tale principio generale, la norma si pone in palese contrasto, svuotando completamente di significato l'intero tessuto normativo in cui essa incide e, di conseguenza, improvvisamente menomando, anzi annullando del tutto i diritti che ne sarebbero conseguiti a tutela degli interessi lesi in danno del contraente debole.
Come già sottolineato, la giurisprudenza di legittimità ha chiaramente affermato che il principio in oggetto debba assicurare ad ognuno eguaglianza di trattamento, quando eguali siano le condizioni soggettive ed oggettive alle quali le norme giuridiche si riferiscono per la loro applicazione.
Non si scorge ragionevolezza, dunque, nel riconoscimento dell'indiscutibile principio generale di impignorabilità relativa dell'emolumento pubblico, solo ai rapporti debitori nei confronti di Equitalia S.p.a., e non anche in quelli inter privatos.
Infine, non sussistono assolutamente limitazioni di sorta, con riferimento al sindacato di costituzionalità a cui ci si rimette, in ragione delle eventuali valutazioni, anche di carattere quantitativo, che dovrebbero caratterizzare la pronuncia della Suprema Corte.
La teorizzazione esplicita del sindacato di ragionevolezza intrinseca, quale canone generale del giudizio di costituzionalità, è comunemente ricondotta alla sentenza della Corte Costituzionale n. 1130 del 1988.
La sentenza - giudicando su un ricorso avverso una legge regionale impugnata dal Governo sull'assunto che non vi fosse una giustificata proporzione tra i mezzi finanziari e personali che la legge metteva a disposizione dei gruppi consiliari e le esigenze obiettive cui questi ultimi dovevano far fronte nella loro attività istituzionale - ha posto la Corte davanti ad un giudizio di ragionevolezza delle scelte compiute dal legislatore regionale.
L'eccezione di inammissibilità prospettata dalla Regione resistente sull'assunto che le censure riguardassero l'opportunità della legge impugnata (in quanto relative ad aspetti puramente quantitativi, rispetto a i quali sarebbe stato impossibile determinare il limite oltre il quale l'erogazione di somme o la messa a disposizione di maggiore personale dovrebbero considerarsi costituzionalmente illegittime) venne respinta.
Afferma testualmente la Corte:
"il giudizio di ragionevolezza, lungi dal comportare il ricorso a criteri di valutazione assoluti e astrattamente prefissati, si svolge attraverso ponderazioni relative alla proporzionalità dei mezzi prescelti dal legislatore nella sua insindacabile discrezionalità rispetto alle esigenze obiettive da soddisfare o alle finalità che intende perseguire, tenuto conto delle circostanze e delle limitazioni concretamente sussistenti. Sicché, diversamente da quanto suppone la resistente, l'impossibilità di fissare in astratto un punto oltre il quale scelte di ordine quantitativo divengono manifestamente arbitrarie e, come tali, costituzionalmente illegittime, non può essere validamente assunta come elemento connotativo di un giudizio di merito, essendo un tratto che si riscontra, come s'è appena visto, anche nei giudizi di ragionevolezza. Del resto, come questa Corte ha già rilevato in relazione ad un'analoga eccezione sollevata nel corso di un precedente giudizio (sent. n. 991 del 1988), le censure di merito non comportano valutazioni strutturalmente diverse, sotto il profilo logico, dal procedimento argomentativo proprio dei giudizi valutativi implicati dal sindacato di legittimità, differenziandosene, piuttosto, per il fatto che in quest'ultimo le regole o gli interessi che debbono essere assunti come parametro del giudizio sono formalmente sanciti in norme di legge o della Costituzione".
Pertanto, poiché entrambe le disposizioni possono incidere sulle questioni che interessano il contenzioso in essere tra i signori M. Giorgio e M. Salvatore e il sig. T Alfred, è necessario verificare se, in ipotesi di ritenuta applicabilità tout court delle norme anche alle questioni in esame, le stesse risultino effettivamente coerenti con i summenzionati principi sanciti dalla Costituzione.
P.Q.M.
Letti gli artt. 134 e 137 della Costituzione, 1 della legge costituzionale 9/2/1948 n. 1 e 23 della legge 11/3/1953 n. 87,
il Tribunale di Lecce, in persona del GOT dott. Alessandro Maggiore, ritenuta non manifestamente infondata e rilevante, per la decisione del presente giudizio, la questione di legittimità costituzionale:
¢ Dell'art. 12 comma 2 lett. c) l. 214/2011, per violazione degli artt. 38 e 3 della Costituzione, nei termini e per le ragioni di cui in motivazione,
nella parte in cui non ha previsto che sono fatte salve le limitazioni in materia di pignoramento di cui all'art. 545 c.p.c.;
¢ Dell'art. 3 comma 5 legge n. 44/2012, per violazione degli artt. 38 e 3 della Costituzione, nei termini e per le ragioni di cui in motivazione, (nella parte in cui non prevede l'applicazione dei limiti individuati da siffatto articolo anche ai crediti inter privatos);
COSI' DECIDE
" dispone la sospensione del procedimento in corso;
" ordina la notificazione della presente ordinanza al Presidente del Consiglio dei Ministri e la comunicazione della stessa ai Presidenti della Camera dei Deputati e del Senato;
" ordina la trasmissione dell'ordinanza alla Corte Costituzionale insieme con gli atti del giudizio e con la prova delle notificazioni e delle comunicazioni prescritte.
Si comunichi.

Lecce 12 febbraio 2014
Dott. Alessandro Maggiore


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