Avv. Antonio Tanza - Vicepresidente ADUSBEF


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Sent. C.A. Lecce

Anatocismo e Usura > Anatocismo: alcune vecchie sentenze...

STREPITOSA VITTORIA DI ADUSBEF A LECCE!

PUBBLICHIAMO QUI IL TESTO INTEGRALE DELLA STORICA

SENTENZA DI CORTE D'APPELLO DI LECCE


CONDANNATA BANCA DEL SALENTO (BANCA 121) ALLA RESTITUZIONE DI CENTINAIA DI MILIONI DI LIRE PER ILLEGITTIMI INTERESSI RISCOSSI DA UN’IMPRESA FATTA FALLIRE

dell'Avv. Antonio TANZA - Vicepresidente ADUSBEF

Storica affermazione della Ns. Associazione nella campagna condotta al fianco degli utenti bancari per la restituzione degli interessi e competenze illegittimamente applicate sui c/c:

la Corte di Appello di Lecce (Relatore Dott. DELL’ANNA), con sentenza depositata in data 22 ottobre 2001 accogliendo la domanda proposta da Amministrazione Fallimentare GRIDI COSTRUZIONI S.r.l., CHIRIATTI Luigi e CAPPELLO Enrica, associati ADUSBEF, assistiti dal Vicepresidente Nazionale, Avv. Antonio TANZA (www.studiotanza.it), ha condannato BANCA 121 (ex Banca del Salento) S.p.A., rappresentata dall’Avv. Prof. Sabino FORTUNATO (Ordinario di Diritto Commerciale nell’Università degli Studi di Bari) e Avv. Stefano SAN MARTINO, al pagamento in favore degli attori della somma di Lire 376.375.436, oltre interessi legali dalla domanda al soddisfo, quale effettivo saldo creditore al 30 settembre 1993 vantato da GRIDI COSTRUZIONI S.r.l. (società poi fallita) nei confronti di Banca 121 (già Banca del Salento) S.p.A. in relazione al c/c n. 01-43320/07-17, tratto dalla fallita società presso l’istituto di credito leccese in data 21 settembre 1982, e garantito da fideiussioni rilasciate dai Sigg.ri CHIRIATTI Luigi e CAPPELLO Enrica.

La vicenda processuale – In data 29 settembre 1993 Banca del Salento S.p.A., lamentando la mancata movimentazione del c/c n. 01-43320/07-17, tratto da GRIDI COSTRUZIONI S.r.l., su cui poggiava un’apertura di credito con facoltà di scopertura, garantita da fideiussioni omnibus rilasciate dai Sigg.ri CHIRIATTI Luigi e CAPPELLO Enrica, comunicava alla correntista e ai suoi garanti il recesso dal rapporto, intimando altresì il pagamento entro pochi giorni della somma di Lire 457.369.987 quale saldo debitore insistente sul c/c a tale data.

La correntista società ed i suoi fideiussori non intendevano accedere alle illegittime richieste della banca e pertanto la citavano in giudizio dinanzi al Tribunale di Lecce, denunziando la illegittimità ed iniquità degli interessi e competenze applicate nel corso del rapporto (interessi ultralegali determinati secondo l’inesistente uso piazza, anatocismo trimestrale, c.m.s. e valute), chiedendo l’accertamento dell’effettivo dare – avere tra le parti con condanna della banca alla restituzione di quanto indebitamente ricevuto.

Vinta la causa in primo grado, gli associati ADUSBEF si costituivano nel giudizio di appello intentato dalla banca e, in tale sede, come già documentato, richiedevano ed ottenevano una CTU contabile sull’impugnato rapporto, diretta ad accertare l’effettivo saldo contabile depurato dai costi e competenze illegittimi e non dovuti.

I risultati della CTU contabile si sono rivelati a dir poco clamorosi: a fronte di un saldo passivo al 29 settembre 1993 per Lire 457.369.987 come da estratto conto banca, il consulente dell’Ufficio, effettuando il ricalcolo delle competenze dovute al saggio legale di interesse, eliminando le competenze derivanti dalla capitalizzazione trimestrale nonché le commissioni sul massimo scoperto trimestrale mai pattuite in contratto, ha accertato in pari data un saldo creditore della correntista società nei confronti della Banca del Salento S.p.A. di Lire 376.375.436.

La Corte di Appello di Lecce, condividendo appieno i risultati del ricalcolo effettuato in CTU, dal Dott. Andrea COFANO da Lizzanello, ha condannato la banca alla restituzione alla Curatela Fallimentare di GRIDI COSTRUZIONI S.r.l. tale somma maggiorata di interessi.

La Curatela Fallimentare ha quantificato l’intero credito del fallimento in lire 566.006.786 alla data odierna.

Si riporta di seguito il testo integrale della sentenza:


n. 598/2001 Sentenza
N. 3689 Cronologico

N.629 Repertorio

Repubblica italiana
in nome del popolo italiano

La Corte di Appello di Lecce - Sezione I^ Civile - composta dai Signori:

1) Dott. Roberto CORALLO - Presidente,

2) Dott. Marcello DELL'ANNA - Consigliere Est.

3) Dott. Cosimo ALMIENTO - Consigliere

ha pronunciato la seguente

SENTENZA
nella causa civile in grado di appello iscritta al N. 42 del Ruolo Generale delle cause dell'anno 1998 (vi è riunita la causa n. 624/98 R.G.) trattata e passata in decisione all'udienza collegiale del 21 marzo 2001

TRA
Banca del Salento S.p.A, C.F.00143640753 con sede in Lecce, in persona del suo Vice Presidente e legale rappresentante pro-tempore, elettivamente domiciliato in Lecce alla via Sardegna n.2, presso lo studio dell'avv. Stefano San Martino e del prof. Avv. Sabino Fortunato, che la rappresentano e difendono in virtù di mandato a margine dell'atto di appello.

-APPELLANTE-

E
Amministrazione Fallimentare della GRIDI COSTRUZIONI S.r.l., con sede in Lecce, alla via IV Finite s.n. (C.F. 01212600751) in persona del legale rappresentante, curatore avv. Giovanni Greco (in virtù di provvedimento del Giudice Delegato datato 16.2.1998), CHIRIATTI Luigi, n. 14.3.1930 in Lecce, ivi residente alla via Paisiello n. 15 (C.F. CHR LGU 30B14 E506L), CAPPELLO Enrica, n.1.4.1934 in Lecce, ivi residente alla via Paisiello n.15, elettivamente domiciliati in Lecce alla via Martiri d'Otranto n.4, presso lo studio del suo procuratore, avv. Antonio Tanza, che la rappresenta e difende in virtù di mandato a margine della comparsa di costituzione e risposta.

-APPELLATO E APPELLANTE INCID.-

All'udienza di precisazione delle conclusioni i Procuratori delle parti hanno così concluso:

IL PROCURATORE DELL'APPELLANTE

Voglia l'Ecc. ma Corte di Appello di Lecce:

1) dichiarare la legittimità della clausola contrattuale di cui all'art. 7 delle norme regolanti il contratto, con riferimento agli interessi ultralegali applicati al rapporto oggetto del giudizio e dal correntista Gridi S.r.l. dovuti alla Banca con riferimento al contratto di c/c n. 43320/0 del 21.9.1992 e alle fideiussioni pacificamente rilasciate dai sigg.ri Chiriatti Luigi e Cappello Enrica con atti del 21.9.1982;

2) dichiarare altresì che gli interessi composti dovuti alla concludente dalla correntista Società, capitalizzati secondo contratto, vanno riconosciuti e sono dovuti anche dopo alla chiusura del conto (29.9.1993) e sino all'effettivo pagamento;

3) dichiarare legittima la C.M.S. e quindi valido il corrispondente appostamento fattone negli estratti conto;

4) gradatamente dichiarare la decadenza ex contractu ed ex lege, della più volte ripetuta Società dal diritto a porre in discussione le risultanze del conto e il definitivo saldo debitore dallo stesso espresso in £. 457.369.987;

5) accogliere la riconvenzionale domanda di pagamento di detta somma, dalla Banca del Salento ritualmente spiegata in prime cure e, per l’effetto, condannare gli appellati, in solido e nella qualità, al pagamento in favore della concludente della somma di £. 457.369.987 oltre interessi;

6) condannare infine gli appellati, e sempre in solido, al pagamento di spese, onorari e funzioni del doppio grado di giudizio.

IL PROCURATORE DEGLI APPELLATI

Voglia l'Ecc.ma Corte, respinta ogni contraria istanza, ritenere fondati i motivi suesposti e per l'effetto rigettare l'appello principale, confermando le statuizioni della sentenza ed in accoglimento dell'appello incidentale proposto riformare la sentenza impugnata e dichiarare:

1) modificando in parte la statuizione sub 2, la nullità della clausola contrattuale laddove stabilisce che gli interessi dovuti dal correntista producono a loro volta interessi nella stessa misura;

2) modificando in toto la statuizione sub 4, la nullità della clausola contrattuale, laddove stabilisce che gli assegni vengano addebitati con valuta corrispondente alla data di emissione o alla data di negoziazione nel caso di postdatazione degli assegni e l'invalidità della clausola in relazione agli interessi passivi sugli accrediti, poiché nulla è previsto in contratto.

Voglia altresì rigettare la domanda riconvenzionale, poiché la Banca del Salento non vanta un credito in favore degli esponenti della somma di £. 457.369.987, oltre interessi;

accogliere la domanda di restituzione, spiegata dalla Gridi Costruzioni S.r.l. ed oggi dalla subentrante Amministrazione Fallimentare, della somma di £. 335.950.583, condannando la Banca del Salento S.p.A al pagamento delle indicate somme, oltre interessi dalla maturazione al saldo, salvo diversa somma che verrà accertata in sede di consulenza tecnica contabile, ritualmente richiesta in primo grado.

Con vittoria di spese, competenze ed onorari di entrambi i giudizi.


SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto 25 marzo 1996 la Gridi Costruzioni S.r.l., nonché Luigi Chiriatti ed Enrica Cappello -fidejussori -, premesso in fatto che la Gridi intratteneva sin dal 1982 un rapporto di conto corrente con apertura di credito mediante affidamento con scopertura di circa £. 600.000.000 con la Banca del Salento, garantito dal Chiriatti e dalla Cappello, esponevano che, dall'ultimo estratto conto bancario, il saldo debitore alla data del 29 marzo 1993 risultava di £. 457.369.987, invano da loro contestato in via stragiudiziale.

Deducevano che tale importo costituiva il risultato cui, in modo anomalo, si era giunti sulla base del "costo totale del credito concesso dalla Banca", comprensivo degli "interessi nominali", delle “perdite di valuta nelle operazioni e dei giorni banca”, delle "capitalizzazioni" delle "commissioni e provvigioni", delle "spese per operazione, di tenuta conto, di chiusura periodica e finale" e di "tutti gli oneri accessori".

In quest'ambito segnalavano l'incongruità dell'addebito degli interessi sugli assegni al giorno della loro emissione anziché in quello dell'avvenuto pagamento, la nullità della clausola concernente la capitalizzazione trimestrale degli interessi maturati sui conti passivi, l'illegittimità dell'applicazione delle Commissioni di massimo scoperto, nonché la nullità della clausola sugli interessi "alle condizioni usualmente praticate dalle aziende di credito sulla piazza".

Nel sottolineare che la Gridi aveva appurato, attraverso una propria perizia tecnico - contabile un suo credito di £. 335.590.583, convenivano la Banca del Salento innanzi al Tribunale di Lecce per sentire dichiarare: A) l'invalidità e la nullità del contratto di apertura di credito con scoperto sul c/c 433200 -17, "particolarmente in relazione alla determinazione ed applicazione degli interessi, dell’ anatocismo e dei costi"; B) la nullità, ed in via subordinata l'annullamento dei contratti di apertura di credito in conto corrente e di ogni clausola ed obbligazione accessoria oltreché delle fidejussioni; C) previo ricalcolo delle somme a credito e a debito delle parti sulla base dell'intera documentazione e tenuto conto delle dedotte invalidità, condannare la banca al pagamento della somma di £. 335.950.583 - ovvero di quella determinata del C.T.U.-, oltre interessi legali, risarcimento dei danni e rifusione di spese processuali.

Istituitosi rituale contraddittorio, precisate le linee di credito a termine concesse alla Gridi e le varie iniziative e trattative intercorse per la soluzione della questione, la convenuta rivendicava la legittimità del proprio comportamento, improntato a lealtà e buona fede.

Con riguardo al tasso di interesse, rilevava che questo era stato determinato per relationem in conformità a criteri oggettivi, atteso che le condizioni praticate dalla Banca sulla piazza corrispondevano a quelle fissate su scala nazionale e debitamente pubblicizzate, divulgate ed affisse all'interno degli "stabilimenti bancari".

Deduceva, quanto all'anatocismo, che si trattava di un uso normativo, applicabile sia in corso che alla chiusura del rapporto in virtù del principio della perpetuatio obligationis, di cui all'art. 1224, 2° c., C .C.

Sottolineava la legittimità della contabilizzazione degli interessi sugli assegni emessi dalla Gridi con decorrenza dal giorno di emissione in conformità, peraltro, alla clausola di cui all'art. 7 del contratto di conto corrente, nonché della commissione di massimo scoperto.

Asseriva, in ordine alla posizione del Chiriatti e della Cappello, la validità della fidejussione.

Osservava, da ultimo, che mai gli attori - a parte le preclusioni e decadenze in cui erano incorsi - avevano contestato il credito della banca, viceversa ammesso con il ricorso 18 novembre 1994 per l'ammissione ad Amministrazione Controllata, sicché con la stessa comparsa di costituzione spiegava domanda riconvenzionale per il pagamento della somma di £. 457.369.987, oltre interessi ed accessori.

A seguito di ordinanza del giudice istruttore in data 19 giugno 1996, gli attori precisavano in dettaglio le ragioni della domanda ed il petitum con memoria depositata il 27 novembre successivo, cui replicava la Banca con note del 30 dicembre.

Con sentenza non definitiva 25 settembre - 8 ottobre 1997, il Tribunale dichiarava: 1) che "gli interessi primari dovuti dalla s.r.l. Gridi Costruzioni, dalla Cappello e dal Chiriatti in relazione al contratto di conto corrente con la S.p.A. Banca del Salento n.4332010 del 21 settembre 1982 ed alle relative fidejussioni, erano e sono quelli legali"; 2) "che gli interessi composti dovuti alla Banca del Salento dai soggetti indicati sub 1, capitalizzati secondo contratto, erano quelli legali e non sono più dovuti dal 29 settembre 1993" (data di chiusura del conto); 3) "che nulla era ed è dovuto alla Banca del Salento dai soggetti indicati sub 1 per commissione di massimo scoperto"; infine, punto 4, rigettava "la domanda attinente l'art. 7, c. 5° del contratto indicato sub 1" (calcolo della decorrenza degli interessi sugli assegni emessi).

A tale pronuncia - impugnata dalla Banca del Salento, con atto 30 gennaio 1998 in via principale, e dal fallimento Gridi nonché dal Chiriatti e dalla Cappello, in via incidentale, con comparsa di risposta depositata il 30 marzo 1998 -, seguiva quella definitiva in data 7 luglio - 5 settembre 1998, con la quale il Tribunale rigettò - perché non provate - le domande rispettivamente proposte dalle parti compensando integralmente tra le stesse le spese processuali.

Anche quest'ultima sentenza è stata impugnata dalla Banca del Salento con atto 9 dicembre 1998, in via principale e dal Fallimento Gridi, dal Chiriatti e dalla Cappello, in via incidentale, con comparsa di risposta depositata il 29 gennaio 1999.

La causa, all'udienza del 21 marzo 2001, nella quale le parti l'hanno discussa oralmente, è stata riservata per la decisione (dopo la precisazione delle conclusioni con assegnazione dei termini di legge per il deposito in cancelleria delle comparse conclusionali e delle memorie di replica).


MOTIVI DELLA DECISIONE
1) All'udienza del 19 maggio 1999, la Banca del Salento ha prodotto "istanza di ammissione al passivo del credito del quale si discute e stato passivo dichiarato definitivamente esecutivo dal Giudice Delegato in data 20 aprile 1999, depositato in cancelleria il 10 maggio 1999", instando per la declaratoria di "improcedibilità della domanda proposta dal fallimento".

Secondo la tesi della Banca, ampiamente sviluppata nella memoria 15 settembre 1999, nonché nella comparsa conclusionale del 18 maggio 2001 e nella replica del 5 giugno 2001, l'improcedibilità scaturisce dal disposto dell'art. 52 L.F. in base al quale "ogni credito, anche se munito di diritto di prelazione, deve essere accertato secondo le norme stabilite dal capo V, salvo diverse disposizioni di legge".

Tale norma dunque stabilisce una competenza funzionale del Giudice Delegato e del Tribunale Fallimentare a conoscere le ragioni di credito verso il fallito, derogabile, tuttavia, nell'ipotesi di cui all'art. 95, 3° c. stessa legge, secondo cui "se il credito risulta da sentenza non passata in giudicato, è necessaria l'impugnazione se non si vuole riconoscere il credito": fattispecie questa estesa dalla giurisprudenza al caso opposto di rigetto della domanda o di parziale accoglimento della stessa.

Sulla base del sistema, testè descritto, ad avviso della Banca, al Giudice Delegato è attribuito il potere "di avvalersi o meno della sentenza di merito non definitiva che accerta o rigetta il credito, di cui il creditore chiede l'ammissione", in quanto "gli organi della procedura hanno il potere di non aderire alla pronuncia di prime cure, sia impugnando la sentenza sfavorevole al fallito sia rinunciando all'esito di quella favorevole allo stesso, e dunque ammettendo il credito insinuato".

Conseguentemente - si assume - l'ammissione da parte del Giudice Delegato con il citato decreto del 20 aprile 1999 del credito della Banca - già fatto valere con domanda riconvenzionale - costituisce accertamento definitivo, divenuto esecutivo ed opponibile alla massa, donde l'inutilità - giacché "priva di efficacia" - della pronuncia di questa Corte sulla pretesa del fallimento nonché su quella "dipendente dei fidejussori".

Tale conclusione, secondo la Banca, si correla oltreché alla posizione di "dominus" della procedura, rivestita dal G.D., altresì all'orientamento giurisprudenziale in tema di domande - principale e riconvenzionale - fondata sul medesimo titolo - come nella specie – ed in quanto tali rientranti nella competenza funzionale ed inderogabile del Tribunale Fallimentare, secondo il rito di cui agli artt. 93 e seg. L.F.

La deduzione è infondata.

Rileva la Corte che, nonostante l'esattezza dei principi enunciati, sono erronee le conseguenze, che da essi la difesa della Banca ritiene di trarre.

In effetti, secondo la consolidata interpretazione giurisprudenziale, a fronte della regola generale sancita dall'art. 52 L.F., la deroga, contenuta nell'art. 95, 3° c., stessa legge ha una duplice valenza: opera, cioè, sia nell'ipotesi in cui il credito verso il fallito risulti da sentenza non passata in giudicato, sia in quella in cui sempre con sentenza non passata in giudicato la domanda del creditore sia stata rigettata in tutto o in parte, donde la necessità dell'impugnazione - ove, successivamente alla decisione, sia intervenuto il fallimento del debitore - da parte del fallimento per escludere l'ammissione al passivo del credito e da parte del creditore per evitare gli effetti preclusivi del passaggio in giudicato della sentenza di rigetto.

Senonché una volta che sia stata proposta l'impugnazione, cui, come si è visto, sono legittimati sia il creditore che il fallimento rispetto a tutte le sentenze reputate rispettivamente pregiudizievoli, il processo non può che proseguire davanti al giudice naturale dell'impugnazione cui, conseguentemente, spetta il potere - dovere di definirlo, senza che la soluzione possa essere influenzata da provvedimenti emessi, nel corso del processo d'appello da altro giudice, ed in particolare per restare alla fattispecie dal Giudice Delegato.

Val quanto dire che l'instaurazione del processo di appello - senza che venisse formulata alcuna questione al riguardo (nella specie: la sentenza dichiarativa di fallimento è stata emessa in data 10 giugno - 7 luglio 1997, dopo che la causa era stata riservata per la decisione, ma prima della sentenza parziale del 25 settembre - 8 ottobre 1997) - vale a radicare nel giudice dell'impugnazione la competenza esclusiva di accertare la sussistenza o meno dei crediti del o verso il fallimento con esclusione di qualsiasi altra competenza.

Ciò non significa che le parti - come in ogni processo ordinario - siano prive dei poteri per definirlo, attraverso i normali meccanismi delle transazioni, rinunce, ecc. - nella specie non intervenute -, mentre va decisamente escluso che, nella pendenza di un giudizio, come il presente, volto per legge all'accertamento dei crediti, altro organo giudiziario possa spiegare al posto del giudice naturale un intervento lato sensu surrogatorio, in definitiva sostituendo la propria decisione a quella del giudice adito, cui spetta la definizione del processo.

L'espressione, comunemente riportata secondo cui il Giudice Delegato è il dominus (per inciso: non assoluto) del procedimento fallimentare, va, quindi, intesa nel senso che egli può a fronte della sentenza non definitiva optare per l'impugnazione o meno, ma non in quello di accertare autonomamente un credito, ai cui fini il Legislatore - intervenuta l'impugnazione - ha prefigurato una sede istituzionale diversa.

Deve, pertanto, ritenersi che, nella specie, il decreto del 20 aprile 1999 di formazione ed esecutività dello stato passivo del fallimento della Gridi Costruzioni S.r.l., è - nella parte in cui contempla il credito della banca del Salento - tamquam non esset, in quanto emesso in assoluta carenza di potere.

Siffatta conclusione trova, tra l’altro, riscontro proprio nell'orientamento giurisprudenziale, citato dalla Banca, in tema di domanda principale e riconvenzionale, dipendenti dallo stesso titolo: il principio fissato, infatti, secondo cui il relativo accertamento va dal giudizio ordinario trasferito alla sede concorsuale - nel caso di originario o intervenuto fallimento di una delle parti - vale esclusivamente per il processo di primo grado, mentre una volta intervenuta la sentenza, questa va impugnata nei modi ordinari con conseguente devoluzione della questione al giudice d'appello.

Va, pertanto, affermato il potere di questa Corte di appurare - a fortiori rispetto ai fideiussori - le ragioni di credito - debito rispettivamente dedotte dalle parti.

2) Con il primo motivo di impugnazione, la Banca si sofferma sulla prima parte della motivazione della sentenza (non definitiva) impugnata, nella quale, a suo avviso, il Tribunale ha esaminato le questioni dibattute tra le parti "in un contesto pregiudizievole" all'istituzione bancaria, in sostanza misconoscendo la funzione sociale da essa svolta, così dando alla causa "un'impostazione moralistica", che ha implicato una perdita di "serenità" nella soluzione dei problemi giuridici, successivamente affrontati.

La censura, ancor prima che infondata, è, in sostanza, irrilevante.

Il Tribunale, in definitiva, si è limitato a sottolineare la "particolare attualità" della materia e ad agganciare a tale profilo quello della "passionalità con la quale le parti - ma segnatamente i clienti degli istituti di credito" - sono portate a trattare le problematiche sottese alle controversie.

Si tratta, come è agevole rilevare, di notazioni fini a se stesse, che il Tribunale ben avrebbe potuto omettere, ma che non hanno avuto né hanno alcuna valenza ai fini della decisione.

3) Premesso (motivo sub B) che la vicenda intercorsa tra le parti e disciplinata dalla scrittura 21 settembre 1982 con la quale esse avevano convenuto l'apertura del conto corrente di corrispondenza n.43320/0-17- poi chiuso il 29 settembre 1993 ad iniziativa della Banca - nonché dalle "disposizioni d'uso" in base al combinato disposto degli artt. 1374 e 1340 C.C. l'appellante principale passa poi ad affrontare - censurando la decisione impugnata - la questione concernente il tasso di interesse applicabile nella specie.

All'uopo rileva: A) che il Tribunale è incorso nel vizio di ultrapetizione in quanto gli attori avevano fondato la domanda su "una assunta violazione del disposto di cui alla L. 154/1992 ed al T.U. 1.9.1993 n. 385 secondo cui, la mancata convenzione scritta di un determinato tasso e negozialmente espresso, precluderebbe in senso radicale il diritto dell'istituto di credito di applicare al rapporto, e quindi di richiedere, un tasso diverso da quello legale", così attribuendo alla nuova normativa "funzioni di interpretazione autentica" in contrasto con il chiaro disposto dell'art. 61 del citato T.U., secondo cui "i contratti già conclusi alla data di entrata in vigore del presente decreto legislativo restano regolati dalle leggi anteriori"; B) che il Tribunale ha erroneamente interpretato la clausola in discorso del seguente testuale tenore: "gli interessi dovuti dal correntista all’azienda di credito, salvo patto diverso, si intendono determinati alle condizioni praticate usualmente dalle aziende di credito sulla piazza , e producono a loro volta interessi nella stessa misura". Premesso che tale clausola enuncia un criterio di determinazione degli interessi, secondo la banca appellante la pattuizione, che di per sé integra "la scrittura ad substantiam chiesta dall'art. 1284 C.C.", vale ad esprimere uno schema definito, contemplando criteri sufficienti per la concreta determinazione del tasso nel corso del rapporto; C) che tale meccanismo - meritevole sul piano causale - risponde alle esigenze del cliente di conoscere "il prezzo del debito di interessi" ed alla banca di ottenere, sul capitale messo a disposizione del cliente, una remunerazione la cui "variabilità" è rimessa alla banca stessa nell'ambito "di una fascia di tassi d'uso" ricompresi tra un minimo ed un massimo, secondo indici obiettivamente rilevati (ISTAT, ABI, Banca d'Italia); D) che in rinvio "all'uso piazza" è stato costantemente ritenuto legittimo dalla giurisprudenza, in quanto fondato su un criterio oggettivo, certo e di agevole riscontro, rispetto al quale il potere della Banca si atteggia come "limitato", ma il cui esercizio è riconducibile, ex art. 16 del contratto, all'art. 1349 C.C., atteso che sul piano normativo la determinazione di un elemento negoziale ad opera di una delle parti è riconosciuta in varie disposizioni, quali gli artt. 1322, 1282, 1474 oltre che nel citato articolo 1349 C.C.; E) che, conseguentemente, spetta alla Banca il potere di "arbitratore", a prescindere dal quale, comunque, il tasso praticato in funzione delle condizioni di mercato, veniva direttamente significato alla clientela attraverso adeguati mezzi di pubblicizzazione - stampa anche non specializzata, cartelli affissi all'interno degli stabilimenti -; F) che in questo contesto, mai gli attori avevano contestato i tassi in concreto applicati, rispetto ai quali, peraltro, andava tenuto conto degli usi e delle consuetudini vigenti nel settore del credito, accertati su scala sia nazionale che locale; G) che, in subiecta materia, il Tribunale aveva trascurato di considerare che, ai sensi dell'art. 1825 C.C., applicabile anche al rapporto di conto corrente di corrispondenza, sulle "rimesse decorrono gli interessi nella misura stabilita dal contratto o dagli usi ovvero, in mancanza in quella legale" donde la validità della pattuizione; H) che la Gridi, oltre a non contestare la sua esposizione nei confronti della Banca, l'aveva espressamente riconosciuta sia nei bilanci di esercizio che nel ricorso 18 novembre 1994 per l'ammissione alla procedura di amministrazione controllata, il che, tra l'altro, comportava decadenza dal diritto di porre in discussione le risultanze degli estratti conto e la incondizionata approvazione di questi ultimi; I) che dunque la pretesa delle controparti per la "rideterminazione dei calcoli e dello stesso finale credito della banca" non poteva trovare ingresso e, comunque, era preclusa dalla intervenuta prescrizione.

La censura è destituita di fondamento.

A pagina XIII dell’originario atto di citazione, gli attori hanno espressamente enunciato la ragione di nullità della clausola concernente gli interessi ad uso piazza sia richiamando la disposizione, a loro avviso applicabile (art. 1284, 3° c., C.C.), sia individuando nella insufficienza del criterio c.d. "per relationem" il parametro per la determinazione del tasso.

In tale ambito hanno soggiunto che la nullità, conseguente alla "ragione" allegata, era stata già riconosciuta da una parte - ancorché minoritaria - della giurisprudenza ed aveva, poi, trovato spazio nella recente normativa sulla trasparenza bancaria.

In base ai rilievi testè esposti deve escludersi la sussistenza del vizio di ultrapetizione, denunciato dalla Banca nel rilievo sub A, non avendo palesemente gli attori basato la domanda sulla citata nuova normativa, richiamata solo ad abundantiam, ma sulla mancata rispondenza della clausola in discorso alla fattispecie legale sancita dal summenzionato art. 1284 C.C., sicché in linea con tale impostazione hanno invocato nelle conclusioni rassegnate nello stesso atto (v. pag. XXV) la declaratoria di "invalidità e nullità" del contratto di conto corrente "particolarmente in relazione alla determinazione e applicazione degli interessi".

Sempre in via preliminare vanno esaminati i rilievi sub H e I, nei quali, come si è visto, la banca ha dedotto l'intervenuta approvazione degli estratti conto quale dato preclusivo della loro impugnabilità e la prescrizione dell'azione di ripetizione, basata sulla "rideterminazione dei calcoli".

Orbene quanto al primo rilievo è agevole replicare per l'approvazione c.d. tacita dell'estratto conto trasmesso al correntista per difetto di contestazione nel termine di cui all'art. 1832, 1° c., C.C., concerne per costante giurisprudenza le operazioni materiali e la loro conformità agli accrediti ed agli addebiti - salva in ogni caso la deducibilità di errori ai sensi del 2° comma della disposizione citata -, e non anche la validità ed efficacia dei rapporti obbligatori da cui le operazioni stesse derivano; in tal caso, infatti, l'impugnabilità investe direttamente il titolo ed è regolata dalle norme generali sui contratti.

Nella specie - ferme le altre questioni, sulle quali la Corte si soffermerà in seguito (capitalizzazione trimestrale, commissione di massimo scoperto, ecc.) gli attori - appellati hanno fatto valere la nullità della clausola relativa agli interessi ad uso piazza, così allegando una ragione che attiene al titolo, sicché non vi è spazio per ritenere preclusa l'impugnazione.

Con riguardo al secondo rilievo, va osservato che il reclamo da parte del correntista di somme - in via di asserzione - indebitamente trattenute dalla banca su un'apertura di credito in conto corrente a titolo di interessi, perché calcolati in misura superiore a quella legale senza valida pattuizione, è soggetto a prescrizione decennale, che inizia a decorrere dalla chiusura del rapporto; questo, infatti, pur articolandosi in una pluralità di atti esecutivi, si atteggia come unico ed unitario, donde è soltanto con la chiusura del conto che i crediti ed i debiti delle parti assumono definitività: nella specie il conto è stato chiuso il 29 settembre 1993 e l'azione è stata esercitata con atto 5 marzo 1996, sicché ne va ritenuta la tempestività.

Com'è noto, sulla validità ed efficacia della clausola relativa all'applicazione convenzionale degli interessi nella misura del tasso ultralegale, determinati secondo il c.d. uso piazza, si è da qualche tempo registrato un ampio dibattito dottrinale e giurisprudenziale.

Attualmente la questione si pone per i contratti conclusi anteriormente all'entrata in vigore della L 154/1992, che all'art. 4 ha sancito la nullità delle clausole di rinvio agli usi e si incentra nello stabilire se la clausola - presente in tali contratti e di per sé sottratta alla nullità comminata dalla novella - presenti o meno i requisiti necessari per l'assolvimento dell'obbligo della forma scritta fissato dall'art. 1284 C.C. appunto per la validità della pattuizione di interessi ultralegali.

In passato la prevalente giurisprudenza di legittimità e di merito, formatasi prima della novella aveva ritenuto sufficiente il suddetto parametro, in quanto per un verso le "condizioni praticate usualmente dalle aziende di credito sulla piazza" erano indicate da un terzo estraneo, non influenzabile dalle parti del contratto, su scala nazionale con accordi interbancari, riscontrabili dalla clientela, mentre per altro verso affermava - in via di principio - che l'elemento di forma non postulava necessariamente che il documento contrattuale contenesse l'indicazione numerica del tasso convenuto, che poteva, pertanto, essere desunto ed integrato per relationem, attraverso dati estrinseci, ma oggettivamente individuabili ai fini della concreta determinazione del tasso convenzionale: con tale ragionamento, la giurisprudenza in definitiva finisce per ritenere sussistente l'elemento della forma scritta della relativa pattuizione.

A partire dal 1996, tale orientamento è stato rivisitato non tanto con riguardo all'affermazione di principio, rimasta sostanzialmente inalterata, essendosi ribadita la legittimità della determinazione per relationem e la non necessità dell'indicazione puntuale del tasso di interesse, quanto sull'altro tema, in precedenza non trattato funditus, della sufficiente certezza dei criteri cui correlare l'uso piazza.

Sul piano sostanziale il mutato indirizzo, cui questa Corte reputa di prestare totale adesione, trova congrua e ragionevole giustificazione nella esigenza - indispensabile al fine del corretto bilanciamento degli interessi in gioco - di ancorare il giudizio di sufficienza a parametri certi, che consentano di accertare una effettiva volontà delle parti in relazione alla previsione di interessi, cui entrambe abbiano inteso riferirsi nel determinare l’oggetto della pattuizione extralegale degli interessi stessi ai sensi dell'art. 1284 cit.

Tale giudizio di sufficienza con riguardo "alle condizioni usualmente praticate dalle aziende di credito sulla piazza", postula, per ritenerne la validità, l'esistenza di vincolanti discipline fissate su larga scala nazionale con accordi interbancari e non anche quando tali accordi contengano riferimenti a tipologie di tassi - praticati su scala locale - e non consentano per la genericità delle predette condizioni di stabilire a quale previsione le parti abbiano inteso fare concreto riferimento.

Conseguentemente solo la determinabilità effettiva e l'intrinseca controllabilità dei criteri, oggettivamente indicati e richiamati nella convenzione, conferiscono validità alle "condizioni uso piazza", requisiti entrambi che vengono meno in difetto di accordi e/o in presenza di tipologie di tassi notevolmente diversi: in quest'ambito va, altresì, considerato che da oltre sedici anni mancano accordi di cartello e che la indicazione del tasso c.d. prime rate non è vincolante per gli istituti bancari.

Nella specie, il contratto di conto corrente, intercorso tra le parti contiene, al punto 7, un mero riferimento alle condizioni praticate usualmente alle aziende di credito sulla piazza e, nel contempo, attribuisce alla banca, al punto 16, la facoltà di modificare "in qualsiasi momento le norme e le condizioni tutte che regolano i rapporti di conto corrente": la previsione nel combinato disposto delle due clausole non precisa alcun elemento estrinseco di riferimento che permetta una sicura determinabilità degli interessi né i parametri, cui possa essere ancorata la variabilità nel tempo dei tassi, al di fuori di valutazioni unilaterali e discrezionali della banca stessa, sicché deve escludersi che la convenzione richiami una fonte dotata di sufficiente grado di univocità, che disciplini la prestazione degli interessi.

Tale conclusione non si discosta, sul piano sostanziale, dalle stesse argomentazioni della banca, laddove questa ammette che la variabilità dei tassi nel tempo le è "riservata" e che la determinazione del tasso effettivo è ricompresa tra un minimo ed un massimo, rimessa alla sua unilaterale valutazione, ancorché in base a vari indici obiettivamente rilevati (ISTAT, ABI, Banca d'Italia): a parte che di tali indici, peraltro imputabili a soggetti diversi, non vi è cenno nel contratto e che essi, non vincolanti per la banca, non bastano - anche per le eterogeneità della provenienza - ad una persona di media diligenza per individuare in concreto il tasso applicato, gli è che l'assunto dimostra la genericità del rinvio all'uso piazza, privo, come accennato, nella specie di criteri stabili e definiti ancorché estrinseci, e, dunque, certi.

Sul medesimo livello si pongono gli ulteriori rilievi svolti dall'appellante principale circa la sua posizione di "arbitratore" nonché attraverso il richiamo agli usi su scala nazionale e locale.

In ordine al primo argomento, reputa la Corte che il richiamo dell'art. 1349 C.C. non sia pertinente sul piano testuale e su quello logico. La norma, infatti, è suscettibile di trovare applicazione solo nel caso in cui le parti deferiscano la determinazione della prestazione ad un "terzo, che deve procedere con equo apprezzamento": la qualità richiesta - terzietà dell'arbitratore- ed il metodo di operatività del terzo, tenuto a bilanciare gli interessi dei contraenti sulla base di criteri oggettivi svolgendo il ruolo di soggetto imparziale, escludono che arbitratore possa essere una delle parti, detentrice di un proprio interesse in conflitto con quello dell’altra; sotto il secondo profilo, va osservato –come sopra si è accennato- che proprio la mancata previsione di valutazioni unilaterali e discrezionali in capo alla banca può condurre in uno alla univocità della fonte a ritenere determinabile e controllabile l’applicazione in concreto del tasso, sicché è di tutta evidenza come con siffatta costruzione sia incompatibile la dedotta posizione di “arbitratore”.

Vano è, poi, il richiamo agli usi, peraltro, contraddittorio rispetto alla tesi, testé confutata: pacifico, infatti, che il tasso ha subito variazioni nel tempo e, considerato, che secondo l’assunto dell’appellante esso ha oscillato tra minimo e massimo non si riesce a comprendere come possa essere invocato un uso, che, secondo lo stesso assunto su scala nazionale e su scala locale impone che quando la misura degli interessi, a carico della clientela, non è stata pattuita “gli istituti o aziende di credito conteggiano gli interessi stessi alle condizioni e norme che regolano le operazioni ed i servizi bancari e comunque in misura non inferiore al prime rate (ABI: nella raccolta della Camera di Commercio di Lecce) vigente”.

Premesso che, innanzi tutto, la banca non si è attenuta all’”uso” e che questo risulta estraneo alla convenzione, basta sul ben diverso dato della “riserva” gli è, da un lato, che in difetto di pattuizione l’interesse ultralegale è contra legem, dall’altro che la semplice raccolta, curata dall’ABI, non dimostra la sussistenza dell’uso, e che quella della locale camera di commercio esordisce rilevando che“ non sono stati rilevati usi locali, ma che anche nella provincia di Lecce si applicano le seguenti norme previste dagli accordi interbancari”: tra queste quella n.3 sopra riportata.

Irrilevanti sono, poi, la mancata contestazione del credito della Banca anteriormente all'introduzione del giudizio il c.d. riconoscimento operato dalla Gridi in bonis nei bilanci di esercizio e nel ricorso del 18 novembre 1994 per l'ammissione alla procedura di amministrazione controllata.

A parte il rilievo che l'appellante non sembra collegare a tali fatti l'applicazione di istituti di diritto sostanziale e che, ad avviso della Corte quei fatti accompagnati dal pagamento di interessi non integrano, la fattispecie dell'obbligazione naturale, comunque in concreto neppure allegata e non riscontrabile in difetto dei requisiti della spontaneità e della configurabilità di un dovere morale o sociale, va osservato:1) che la mancata contestazione non impedisce alla parte di far valere nel termine prescrizionale il difetto di titolo; 2) che l'indicazione del debito -nella misura indicata nell'estratto conto a saldo- nel ricordato ricorso era funzionale alla procedura incoata; 3) che in quell'epoca l'orientamento giurisprudenziale in materia di interessi, capitalizzazione trimestrale, commissione di massimo scoperto era fondamentalmente diverso rispetto a quello successivamente adottato; 4) che l'ammissione, il riconoscimento e la stessa confessione non avendo efficacia novativa dell'obbligazione non comportano l'estinzione delle eccezioni e non impediscono alla parte di far valere l’invalidità dei fatti costitutivi del debito.

Improprio è, infine, il richiamo dell'art. 1825 C.C.

Tale norma si riferisce, infatti, al conto corrente ordinario, caratterizzato ex art. 1823 C.C. dalla reciprocità delle rimesse, e non al contratto di conto corrente bancario, dotato rispetto all'altro di una propria autonomia strutturale e funzionale (diversità soggettiva, differenti modalità di costituzione, qualità imprenditoriale del banchiere, diverso rapporto di forza tra le parti, ecc.), la cui disciplina non contiene tra le norme richiamate l'art. 1825 C.C.: circostanza di non poco conto, giacché nel rapporto banca - cliente è di norma la prima che impone il tasso di interesse, senza possibilità di formazione di un uso negoziale.

Alla luce delle considerazioni che precedono va, in conclusione, mantenuta ferma la statuizione sul punto emessa dal Tribunale in corretta applicazione dell'art. 1284, 2°, 3° c. C.C.

3) Il capo della pronuncia impugnata, concernente la capitalizzazione trimestrale, è stato censurato sia dalla Banca che dagli appellanti incidentali.

Secondo la Banca il ragionamento del primo giudice che ha ritenuto legittima la capitalizzazione trimestrale durante il periodo di vitalità del rapporto, escludendola per il periodo successivo alla chiusura del conto, è per un verso illogico e, per altro verso, non conforme al diritto.

Sotto il primo profilo, sottolinea la singolarità del trattamento deteriore, che così subirebbe nella fase fisiologica del rapporto il correntista, viceversa "premiato" con un trattamento favorevole nella fase patologica conseguente al suo inadempimento; sotto il secondo -ricordato la funzione della capitalizzazione di accrescimento del capitale depositato dal cliente, e di accrescimento di quello affidato dalla banca - deduce che la capitalizzazione trimestrale costituisce uso normativo e che essa trova applicazione anche dopo la chiusura del conto in forza dell'art. 1340 C.C., dell'inserimento dell'anatocismo bancario nella raccolta degli usi su scala nazionale e locale e nel principio della perpetuatio obligationis.

A loro volta, gli appellanti incidentali - precisata la portata e la ratio dell'art. 1283 C.C. -deducono, diffusamente argomentando, che in subiecta materia non è configurabile un uso derogatorio della disciplina generale sia sotto il profilo temporale (uso consolidatosi in epoca precedente al 1942, data di entrata in vigore del codice civile) che sotto quello qualitativo (normatività dell'uso): in disparte sottolineano che l'onere di provare l'uso (normativo) incombeva alla banca, che non l'ha assolto.

È fondata la censura degli appellanti incidentali.

A norma dell'art. 1283 C.C. gli interessi scaduti possono produrre ulteriori interessi nella sola ipotesi di interessi dovuti da almeno sei mesi, subordinatamente alla proposizione di domanda giudiziale -che ne determina la decorrenza- ovvero al perfezionamento di una convenzione successiva alla scadenza degli interessi stessi.

La stessa disposizione fa comunque salvi gli usi contrari, ma deve trattarsi di veri e propri usi normativi e non di semplici usi negoziali o interpretativi: pacificamente trattasi di disposizione di carattere imperativo e di natura eccezionale, volta a consentire al debitore di conoscere al momento della stipulazione della convenzione anatocistica l'entità del suo debito.

Incontroverso che nella specie, il patto che racchiude la convenzione è ricompreso nel contratto di conto corrente ed è, quindi, anteriore alla scadenza degli interessi, sicché l'art. 1283 cit. non può trovare applicazione nel suo aspetto generale, il problema che si pone consiste in definitiva nello stabilire se in subiecta materia la capitalizzazione trimestrale costituisce un uso normativo o negoziale.

Come è noto, la giurisprudenza aveva in passato sostenuto la prima tesi, senza tuttavia sviscerare la problematica, ma dando per scontata l'esistenza dell'uso, così come registrato dalle Camere di Commercio, in linea di massima ricorrendo al "notorio" e rilevando, sotto questo profilo, che "nel campo delle relazioni tra istituti di credito e clienti, in tutte le operazioni di dare e avere, l'anatocismo trova generale applicazione", donde la superfluità di accertare un uso specifico: tale orientamento si è trascinato tralaticiamente per decenni.

Anche su questo versante -come per gli interessi ad uso piazza- si è registrato di recente un mutamento di indirizzo, che può dirsi oramai consolidato e che questa Corte interamente condivide.

Premesso che le c.d. norme bancarie uniformi - predisposte dall'ABI - non hanno natura normativa, ma pattizia, trattandosi di proposte di condizioni generali di contratto indirizzate alle Banche associate e che non esistono usi locali -come già sottolineato a proposito degli interessi ad uso piazza- l'indagine, cui s'è accennato, concerne la verifica dell'esistenza di una consuetudine -fonte di diritto- sulla capitalizzazione trimestrale.

Come rilevato in giurisprudenza l'uso normativo postula la contestuale ricorrenza di due requisiti: l'uno di carattere oggettivo, consistente nella uniforme e costante ripetizione di una determinata condotta, l'altro di tipo soggettivo, consistente nella consapevolezza di osservare, attraverso quella condotta, una norma giuridica, sicché l'uso, come la norma, deve possedere i requisiti della generalità e dell'astrattezza.

In questo quadro, risulta indifferente -al fine di considerare esistente l'uso- che la capitalizzazione trimestrale degli interessi dovuti dal cliente alla banca trovi generale riscontro nei loro rapporti, giacché l'applicazione della capitalizzazione stessa discende dalla relativa previsione, contenuta negli schemi contrattuali predisposti dalle banche, in base alle norme bancarie uniformi, aventi natura pattizia: in sostanza la prassi così instaurata si correla al modo di operare di uno dei soggetti del rapporto -la banca- cui il cliente, nello stipulare un certo tipo di contratto, non può di fatto sottrarsi, sicché nella stragrande maggioranza dei casi, l'adesione a quella prassi diventa in concreto ineludibile.

Siffatta ricostruzione già porta ad escludere che l' osservanza della prassi sia accompagnata dalla convinzione -che deve ovviamente essere comune ai contraenti di un certo settore- di attuare un regola, volta a disciplinare giuridicamente determinate situazioni: in definitiva, il cliente, nell'ambito dei contratti bancari, stipula sulla base delle condizioni generali, fissate dalla banca, ed il fatto stesso che si avverta la necessità di inserire -come nella specie- la clausola anatocistica tra quelle condizioni vale a dimostrare che l'uso in questione non è normativo, ma negoziale.

L'uso normativo, infatti, operando come la norma, non ha bisogno di una previsione convenzionale (o imposta), sicché l'inserimento della capitalizzazione nel documento contrattuale è funzionale a trovare una base pattizia in assenza di una regola giuridica.

L'esclusione dell'uso normativo comporta la declaratoria di nullità della clausola, in quanto questa imponendo una capitalizzazione trimestrale anteriore alla scadenza degli interessi, viene a porsi in contrasto con l'art. 1283 C.C.

4) Con il terzo motivo, l'appellante principale si duole del mancato riconoscimento della Commissione di massimo scoperto.

Premesso che la contestazione della Gridi e dei fideiussori aveva riguardato l'applicabilità -dunque da escludersi- della predetta voce "a quei saldi debitori che, come quello oggetto della causa, rientrano nei limiti di garanzie costituite dal cliente in favore della banca", sicché "la previsione contrattuale dell'onere" era stata data per scontata, la Banca deduce che la C.M.S. trovava riscontro nell'art. 7 N.B.U., nel regolamento contenente le ufficiali istruzioni della Banca d'Italia nonché nell'uso consolidato e nella prassi bancaria.

La censura è infondata.

Va, preliminarmente sottolineato -pur in assenza di una puntuale allegazione della violazione dell'art. 112 C.P.C. - che gli attori dopo avere dedotto in primo grado con l'atto di citazione la illegittimità della C.M.S. per i motivi indicati dalla Banca nella doglianza in esame- hanno nella successiva memoria -depositata nel termine fissato dal Giudice istruttore alla prima udienza di comparizione " per integrazione della domanda "- segnalato che " nulla dice il contratto in ordine alla Commissione di massimo scoperto, che invece è stata sempre applicata": appare, quindi, evidente che, contrariamente all'assunto della banca, la questione inerente la mancata previsione contrattuale della C.M.S. è stata introdotta in giudizio, sicché correttamente il Tribunale si è pronunciato su di essa sia perché la deduzione predetta integra una mera precisazione sia perché comunque la Banca non ha eccepito l'eventuale novità della allegazione, sia perché, infine, rientra nei poteri del giudice verificare su una determinata pretesa -nella specie della Banca, ancorché convenuta (con azione di accertamento negativo)- trovi riscontro nel contratto, posto a base della pretesa stessa.

Ciò posto, va ribadito che la commissione non compete in quanto non prevista in contratto, come è agevole constatare dall'esame del documento 21 settembre 1982 che contempla le clausole regolatrici del rapporto di conto corrente.

Il dato è, peraltro, pacifico, giacché la stessa Banca, come si è visto, si è richiamata alle norme bancarie uniformi ed alle istruzioni della Banca d'Italia, le une e le altre di per sé inidonee a disciplinare il rapporto de qua.

Né vale sostenere che non vi fu da parte della Gridi contestazione in occasione della comunicazione degli estratti-conto, giacché -come già sopra si è detto nell'esame delle altre questioni - l'impugnazione, che investe direttamente il titolo, dal quale scaturiscono le obbligazioni, è sempre proponibile nell'ordinario termine di prescrizione.

5) A loro volta, gli appellanti incidentali si sono doluti della statuizione del Tribunale, che ha disatteso la domanda di nullità della clausola sull’addebito delle valute, prevista dall'art. 7, 5° c. del contratto di conto corrente, secondo cui gli assegni vanno addebitati con valuta corrispondente alla data di emissione o alla data di negoziazione nel caso di postdatazione: secondo i suddetti appellanti, la clausola in discorso sarebbe valida solo se esistesse "un uso bancario per le valute", che, viceversa, non esiste.

La censura è infondata.

La Corte non condivide l'assunto, secondo cui la validità della clausola de qua debba essere subordinata all'esistenza di un (non meglio specificato) uso: non vi è sul punto alcuna norma che disciplini il tempo dell'addebito degli assegni, fermo restando che esso non può essere anteriore all'epoca di emissione o di negoziazione, sicché nulla vieta che l'una e l'altra data vengano prese in considerazione al fine del compimento delle relative operazioni, anzi tale determinazione appare in linea con la natura di mezzo di pagamento, attribuibile all'assegno.

La previsione contrattuale, dunque, non contrasta con alcuna norma né postula per la sua applicazione la formazione di un uso normativo.

Nelle successive difese di appellanti hanno agganciato la questione addebiti a quella accrediti: a tal proposito, mentre va osservato che l'accreditamento va effettuato quando la banca acquisisce la disponibilità del denaro attraverso l'effettuazione di operazioni interne da eseguire con la massima rapidità consentita dagli strumenti tecnici disponibili, occorre tuttavia, precisare che tale ultima questione non è stata trattata con l'appello incidentale, nel quale si dà atto dell'assenza di pattuizione sul punto, ma non si segnalano ritardi colpevoli e non si rassegna in relazione ad eventuali ritardi conclusione alcuna.

6) Come accennato in narrativa, la Banca, in via principale, il fallimento Gridi, il Chiriatti e la Cappello, in via incidentale, hanno impugnato la sentenza definitiva con la quale il Tribunale ha rigettato le domande rispettivamente proposte.

Alla luce della considerazioni svolte nei numeri precedenti l'appello della banca va rigettato, essendo stato accertato per un verso che il credito preteso si fonda sul voci - interessi ultralegali, anatocismo e commissione di massimo scoperto - che non competano, ed essendosi escluso per altro verso la rilevanza dei c.d. riconoscimenti del credito stesso da parte della Gridi nel ricorso per l'ammissione al procedimento di amministrazione controllata e nei bilanci di esercizio: né a tale ultimo riguardo può ritenersi che le esposizioni nel primo e le annotazioni nei secondi costituiscano "ricognizioni di debito con portata confessoria", come si assume dalla banca, ovvero ne confortino sul piano probatorio l'assunto, una volta appurato che le une e le altre non si sostanziano in "fatti", ma rappresentano il risultato di giudizi su titoli e su rapporti di dare ed avere, disciplinati secondo il diritto vivente dell'epoca in modo pressoché conforme alle pretese della banca, oggi diversamente valutate.

In questo contesto è di tutta evidenza che l'esposizione del debito nel più volte ricordato ricorso non poteva che essere riportata in quell'entità e che nella stessa misura esso andava indicato nel bilancio, senza che ciò potesse originare preclusioni delle ragioni giuridiche poste a fondamento della successiva iniziativa giudiziaria, con la quale, come si è visto, è stata dedotta l'insussistenza del rapporto fondamentale con riguardo alle voci contestate.

Fondato è, invece, l'appello incidentale, con il quale, ribadito il difetto di titolo per interessi ultralegali, capitalizzazione trimestrale e commissioni di massimo scoperto, si sostiene che erroneamente il Tribunale non ha ammesso consulenza tecnico-contabile volta a verificare il rapporto di dare - avere tra le parti.

In effetti, considerata la durata nel tempo del rapporto (circa 11 anni), le variazioni nel tempo del tasso di interesse praticato, il numero delle voci da non considerare al fine di stabilire il saldo finale, era indispensabile svolgere l’indagine invocata ed in questo grado sollecitata anche dalla Banca.

Ebbene il C.T.U., la cui relazione, redatta con serio e indiscutibile rigore scientifico nonché completa ed esaustiva e non criticata dalle parti, ha appurato che credito del fallimento nei confronti della Banca di £. 376.375.436: a tale risultato è giunto, previa ricostruzione di tutte le operazioni attive e passive intercorse tra le parti ricalcolando le somme dovute dal cliente al tasso legale e procedendo, quindi, alla eliminazione della capitalizzazione trimestrale e della commissione di massimo scoperto.

Pertanto, la Banca va dichiarata tenuta al pagamento in favore del fallimento della somma citata, oltre interessi legali con decorrenza dalla domanda, mentre va ribadito il rigetto della domanda proposta dalla Banca contro il fallimento Gridi ed i fidejussori.

Quanto alle spese processuali, reputa la Corte che esse possano essere interamente compensate, attesa l’incertezza giurisprudenziale, che ha caratterizzato la materia dibattuta, ed i differenti orientamenti esistenti nel tempo in cui si è sviluppato il rapporto.



P. T. M.


L A C O R T E
Pronunciando sugli appelli, avverso le sentenze del Tribunale di Lecce in data 25 settembre – 8 ottobre 1997 ed in data 7 luglio – 5 settembre 1998, proposti, in via principale, dalla Banca del Salento con atti rispettivamente 30 gennaio 1998 e 30 dicembre 1998, nonché, in via riconvenzionale, dal fallimento Gridi Costruzioni S.r.l. e da Luigi Chiriatti ed Enrica Cappello con comparse di risposta depositate rispettivamente il 30 marzo 1998 ed il 29 gennaio 1999, così provvede:

A) accoglie la domanda proposta con atto 25 marzo 1996 dalla Gridi e proseguita dal Fallimento e per l’effetto condanna la Banca al pagamento in favore del Fallimento della somma di £. 376.375.436 e degli interessi legali dalla domanda al soddisfo;

B) accoglie la domanda proposta dai fidejussori Chiriatti e Cappello e per l’effetto dichiara che nulla è dovuto da costoro alla Banca del Salento;

C) rigetta la domanda riconvenzionale e gli appelli proposti dalla Banca;

D) conferma nel resto l’impugnata sentenza;

E) compensa interamente tra le parti le spese processuali di questo grado.

Lecce, 2 luglio 2001

IL CONSIGLIERE est. IL PRESIDENTE

(dr. Marcello Dell’Anna) (dr. Roberto Corallo)





Alcune considerazioni – La sentenza in esame costituisce un caso emblematico e clamoroso dei risultati che si ottengono dalla contestazione delle clausole relative agli interessi applicati sui c/c bancari ante trasparenza bancaria.

Attraverso il ricalcolo delle competenze in regime di saggio legale dell’interesse (conseguente alla censura della clausola c.d. uso piazza), senza alcuna capitalizzazione (per effetto dell’illegittimità della clausola sull’anatocismo trimestrale, non è dovuta neppure la capitalizzazione annuale, essendo dovuto il semplice interesse ai sensi degli artt. 820, comma 3, ed 821, comma 3, del c.c.), con eliminazione delle c.m.s., il presunto credito bancario si riduce notevolmente e spesso si traduce in un credito.

Sulla scorta dell’ormai consolidato orientamento della Giurisprudenza di Corte di Cassazione (anche se molte di queste sentenze non sono sponsorizzate dalla dottrina e dalle riviste filobancarie: l’utente non deve sapere) è estremamente probabile, per rapporti di lunga durata, che il debito si traduca in un credito, tenuto conto a tal fine delle somme versate in c/c per il ripristino della originaria disponibilità.

La prescrizione, come sempre sostenuto da ADUSBEF, è decennale e decorre dalla data di chiusura del rapporto: il rapporto si è chiuso il 30 settembre 1993 e, dunque, il calcolo è stato eseguito dalla data di apertura del rapporto, 21 settembre 1982, sino alla data di chiusura, cioè per gli undici anni di durata del rapporto.

Con tale pronunzia il Collegio leccese ha altresì silurato il maldestro tentativo operato dalla banca nel corso del giudizio di far dichiarare l’inammissibilità della domanda degli attori poiché l’ormai ex presunto credito della banca era stato erroneamente ammesso al passivo del fallimento della correntista società: è stato infatti stabilito il principio della irrilevanza a tal fine del decreto di esecutorietà dello stato passivo in costanza di una sentenza di primo grado che già accertava l’illiquidità di tale credito e soprattutto in pendenza di una impugnazione di tale decreto effettuata da parte degli stessi organi fallimentari.

Unico difetto: non riconosce la nullità dell’abusiva antergazione e postergazione delle valute, ma, visti i risultati, si può perdonare…

Una domanda sorge spontanea: quante aziende sono fallite a torto in Italia e quante famiglie si trovano sul lastrico per colpa delle banche e dei poteri collusi con esse?



Lecce – Roma, lì 20 novembre 2001. Vicepresidenza ADUSBEF



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