Avv. Antonio Tanza - Vicepresidente ADUSBEF


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Sentenza mutui

Anatocismo e Usura


SPECIALE MUTUI

Sentenza "Mastronardi"


REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale di Bari – Sezione Distaccata di Rutigliano – in persona del dr. Pietro MASTRONARDI, in funzione di Giudice Unico, ha pronunziato la seguente

SENTENZA

nella causa civile, in prima istanza, iscritta al n.191 del R.G. del 2001,

TRA

V. S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, Avv. A. G. V., nonché per i sigg.ri A. G., Pietro e V. N. L. V., tutti rappresentati e difesi all’avv. Antonio TANZA,

- Attori

CONTRO

INTESA SAN PAOLO IMI S.p.A. (incorporante del Banco di Napoli Spa), in persona del suo rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dal Prof. Avv. Giuseppe Trisorio LIUZZI,

- Convenuta

E CONTRO

INTESA SAN PAOLO IMI S.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, quale mandatario della S.G.A. – Società per la gestione di Attività- S.p.A., rappresentata e difesa dal Prof. Avv. Giuseppe Trisorio LIUZZI ,

- Intervenuta volontaria

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con Atto di citazione, notificato in data 17 aprile 2001, gli odierni attori convenivano in giudizio, innanzi all’On. le intestato Tribunale il Banco di Napoli S.p.A. in persona del legale rappresentante pro tempore, esponendo i complessi rapporti (di c/c e di mutuo), intrattenuti con la Filiale di Conversano (Bari) dell’ex BANCO DI NAPOLI SpA, e contestando i numerosi addebiti di competenze, effettuati dalla Banca in relazione agli impugnati rapporti bancari poichè, nell’ambito di ciascuno di essi, risulterebbero applicati rispettivamente interessi, remunerazioni e costi non concordati e non dovuti, poichè superiori ai limiti imperativi stabiliti dalla legge, in ogni caso superiori a quelli nominali ed, in particolare. Le conclusioni degli attori rassegnate nelle memorie ex art. 183, comma 5, C p c , datate 10 marzo 2003, erano le seguenti: “Voglia l’On.le Tribunale adito, respinta ogni altra istanza, in accoglimento dei motivi su esposti: IN VIA PRINCIPALE 1. ACCERTARE e DICHIARARE l’invalidità a titolo di nullità parziale del contratto di apertura di credito mediante affidamento con scopertura su c/c ordinario n. 27.1845 e su c/c n. 60/6 per anticipazione su effetti SBF, oggetto del rapporto tra parte attrice e la banca, particolarmente in relazione alle clausole di determinazione e di applicazione degli interessi ultralegali, della determinazione ed applicazione dell’interesse anatocistico con capitalizzazione trimestrale, all’applicazione della provvigione di massimo scoperto, all’applicazione degli interessi per c.d. giorni – valuta, dei costi, delle competenze e remunerazioni a qualsiasi titolo pretese; 2. ACCERTARE e DICHIARARE, previo accertamento della scopertura media in linea capitale e del Tasso Effettivo Globale annuale ivi applicato, l’annullamento dei contratti di mutuo sopra indicati ex artt. 1427 e 1439 c.c. e/o per violazione della buona fede nella conclusione e nella esecuzione dei contratti; 3. ”ACCERTARE la difformità tra tasso contrattuale e tasso contrattuale effettivo di ammortamento, DICHIARARE, ai sensi dell’art. 1284 c.c., 1283 c.c. e 1419 c.c., la nullità della clausola dell’interesse ultralegale ed il ricalcalo dell’intero rimborso al tasso legale di volta in volta in vigore, con eliminazione dell’anatocismo”. 4. ACCERTARE e DICHIARARE, per l’effetto, l’esatto dare - avere tra le parti in base ai risultati del ricalcolo che potrà essere effettuato in sede di C.T.U. contabile su ciascuno degli rapporti di mutuo e sulla base dell’intera documentazione relativa al rapporto di apertura di credito e ai rapporti di mutuo; 5. DETERMINARE il costo effettivo annuo degli indicati rapporti bancari (mutuo e c/c); 6. ACCERTARE e DICHIARARE, previo accertamento del Tasso effettivo globale, la nullità e l'inefficacia di ogni e qualsivoglia pretesa della convenuta banca, in relazione all’indicato rapporto di apertura di credito, per interessi, spese, commissioni, e competenze per contrarietà al disposto di cui alla legge 7 marzo 1996 n. 108, perché eccedente il c.d. tasso soglia nel periodo trimestrale di riferimento, con l’effetto, ai sensi degli artt. 1339 e 14192 c.c., della applicazione del tasso legale senza capitalizzazione; 7. CONDANNARE la convenuta banca alla restituzione della somme illegittimamente addebitate e/o riscosse in relazione a ciascuno agli indicati rapporti, oltre agli interessi legali creditori in favore degli odierni istanti; 8. CONDANNARE la banca al risarcimento dei danni subiti dagli istanti a seguito della illegittima segnalazione alla Centrale rischi presso la Banca d’Italia a motivo del rischio a sofferenza falsamente quantificato; 9. RIGETTARE le domande ed eccezioni del Banco di Napoli S.p.A.; 10. CONDANNARE in ogni caso la parte soccombente al pagamento delle spese e competenze di giudizio con distrazione in favore del sottoscritto procuratore antistatario”.
Costituitosi in giudizio BANCO DI NAPOLI S.p.A., ha chiesto il rigetto di ogni domanda, deduzione, eccezione formulata da parte attrice, con vittoria delle spese di lite.
All’udienza di prima comparizione (tenutasi l’8.1.2003), il G.I. autorizzava le parti al deposito di note e rinviava la causa al 27.6.2003.
All’udienza del 27.6.2003 INTESA SAN PAOLO IMI S.p.A. dichiarava l’estinzione di Banco di Napoli S.p.A. per fusione ed incorporazione in altra società, il San Paolo Imi S.p.A..
Il giudizio veniva interrotto e, poi, riassunto dagli attori nei confronti di SAN PAOLO IMI S.p.A., quale società incorporante Banco di Napoli SpA, con la conseguente riproposizione delle domande contenute nell’atto introduttivo del giudizio e delle medesime conclusioni; quindi, il giudizio proseguiva all’udienza del 26.3.2004.
Con comparsa del 16.2.2004 si costituiva in giudizio il SAN PAOLO IMI SpA, reiterando le richieste, già formulate nell’interesse del Banco di Napoli SpA nella comparsa di costituzione e risposta del 10.7.2001.
Con atto di intervento volontario ex art. 105 c.p.c., dispiegato il 25.3.2004, si costituiva in giudizio anche il SAN PAOLO IMI SpA, nella qualità di mandatario della S.G.A. S.p.A., impugnando e contestando le richieste attoree, con vittoria delle spese di lite.
La causa veniva rinviata dapprima all’udienza del 4.10.2004 e poi a quella del 7.2.2005, laddove venivano concessi alle parti i termini per note e repliche ex art. 184 c.p.c..
Dopo un rinvio della causa all’udienza del 4.7.2005, il giorno 3.4.2006 il Giudice si riservava sull’ammissione dei mezzi istruttori, sciogliendo la riserva il 2.5.2006 e disponendo CTU contabile.
All’udienza del 23.2.2007 veniva nominato quale consulente tecnico di Ufficio, il Dott. Commercialista Gallicchio.
Con ordinanza del 23.10.2007, il Giudice formulava i quesiti per il CTU e fissava l’udienza del 5.5.2008 per la comparizione delle parti ed il conferimento dell’incarico al CTU e per il giuramento di rito dello stesso.
Su istanza degli attori, l’udienza veniva anticipata al 16.1.2008, laddove le parti chiedevano una parziale modifica dei quesiti al CTU.
Il G.U. si riservava e, quindi, con ordinanza del 18.1.2008, riformulava i precedenti quesiti come segue : “A) Con riferimento al rapporto di apertura di credito mediante affidamento con scopertura sul c/c ordinario n.27.1845 nonché su c/c n.60.6 per anticipazione sconto effetti sbf stipulato nel febbraio 1998: 1 - calcolare l'ammontare complessivo delle competenze addebitate a titolo di interessi ultralegali, interessi anatocistici, c.m.s., ad. giorni valuta e spese tenuta conto per tutta la durata del rapporto ; 2 - determinare l'effettivo dare-avere in regime di saggio legale di interesse, senza capitalizzazioni e commissioni di massimo scoperto trimestrali, computando le valute delle singole operazioni dal giorno in cui la banca ha acquistato o perduto la disponibilità degli dei relativi importi, con esclusione delle c.d. spese di tenuta conto; B) Con riferimento agli impugnati contratti di mutuo: 1 - calcolare il tasso effettivamente applicato al contratto di mutuo ; 2 - accertare se il tasso effettivo corrisponde a quello indicato nel contratto di mutuo (o nell'atto di erogazione e quietanza); 3 - calcolare la rata dovuta applicando il tasso indicato nel contratto (il tasso effettivo deve coincidere con quello indicato nel contratto) tenendo conto delle date di erogazione e dei rimborsi; se la rata così calcolata risulta inferiore a quella prospettata nel piano di ammortamento, calcolare il maggiore costo complessivo del finanziamento; 4 - se il tasso indicato nel contratto non corrisponde a quello effettivo applicato: I. sviluppare un nuovo piano di ammortamento utilizzando il tasso legale vigente alla sottoscrizione del contratto; II. adeguare il tasso per il calcolo degli interessi ai saggi legali vigenti nei successivi periodi; III. calcolare il debito residuo (seguendo i criteri di cui ai punti i. e ii.) alla data di estinzione naturale del contratto tenuto conto dei versamenti pro tempore effettuati.“
Al CTU veniva assegnato il termine improrogabile di gg. 60 dall'inizio delle operazioni peritali per la redazione del relativo elaborato, da trasmettere ai Procuratori delle parti, o ai CTP, se nominati.
Veniva fissata al 1.7.2008 l’udienza,
ex art. 281 sexies c.p.c., per la discussione orale della causa e contestuale lettura del dispositivo, con termine di 15 giorni prima della stessa per il deposito di eventuali memorie conclusionali delle parti.
Tuttavia, la relazione peritale del Dott. Gallicchio non veniva depositata nei termini e l’udienza del 1.7.2008 veniva rinviata al 16.7.2008.
L’elaborato peritale veniva depositato il 9.7.2008.
All’udienza del 16.7.2008 il GOT rinviava nuovamente la causa all’udienza del 29.10.2008 per la discussione orale della causa e contestuale lettura del dispositivo, con termine alle parti sino al 16.9.2008 per note tecniche, sino al 30.9.2008 per memorie conclusionali e del 15.10.2008 per eventuali repliche.
All’udienza del 29.10.2008 le parti discutevano la causa e il Giudice,
ex art. 281 sexies c.p.c., ha letto in udienza il dispositivo della presente sentenza, provvedendo, quindi al deposito.

MOTIVI DELLA DECISIONE

La domanda attorea è parzialmente fondata e, pertanto, va accolta per quanto di ragione.
Con il primo motivo di censura, deducono gli attori l’invalidità a titolo di nullità parziale del contratto di apertura di credito mediante affidamento con scopertura sui c/c n.27.1845 e su c/c n. 60/6 per anticipazione su effetti SBF, oggetto del rapporto tra parte attrice e la banca, con particolare riferimento alle clausole di determinazione e di applicazione degli interessi ultralegali; di determinazione ed applicazione dell’interesse anatocistico con capitalizzazione trimestrale, all’applicazione della provvigione di massimo scoperto; nonché, di applicazione degli interessi per giorni valuta, dei costi, delle competenze e remunerazioni a qualsiasi titolo pretese.
Con il secondo motivo di censura gli attori deducono la nullità e l’inefficacia di ogni e qualsivoglia pretesa della convenuta banca, in relazione all’indicato rapporto di apertura di credito, per interessi, spese, commissioni e competenze, per contrarietà al disposto della legge n. 108 del 7.3.1996, perché eccedente il c.d. tasso soglia nel periodo trimestrale di riferimento, con l’effetto, ai sensi degli artt. 1339 e 14192 c.c., della applicazione del tasso legale senza capitalizzazione.
Con il terzo motivo di censura, infine, gli attori deducono la nullità e l’inefficacia delle clausole di determinazione dell’interesse ultralegale dei contratti di mutuo sopra indicati, anche perchè contrarie al combinato disposto della legge n. 108/1996 con gli artt. 1419 c.c. e 1815, comma 2, c.c. con l’effetto della consequenziale perdita dell’interesse legittimo.
I contratti, oggetto del presente giudizio, sono : 1) un’ apertura di credito con affidamento mediante scopertura su c/c ordinario n. 27.1845, nonché su c/c n. 60/06 per anticipazione sconto effetti SBF, che ha avuto inizio nel gennaio 1988 (garantita da fideiussioni omnibus illimitate di V. Avv. A. G., V. Pietro e V. V. N. L.), originariamente finalizzata, secondo la natura tipica del contratto, a soddisfare temporanee esigenze di elasticità di cassa dell’Azienda attrice; 2) un rapporto di mutuo (con atto per Notar Francesco Denora in Rutigliano (BA), stipulato in Bari, il 9.6.1988 - Rep. 13276) con BANCO DI NAPOLI S.p.A, e pedissequo atto di erogazione a saldo e quietanza (sempre con atto per Notar Denora, stipulato in Bari, l’1.8.1988 - Rep. 13439, Racc. 5291) per Lire 350.000.000, da rimborsarsi, a tasso fisso, a mezzo di n. 20 rate semestralità di ammortamento, ciascuna dell’importo di Lire 32.781.188, all’interesse corrispettivo al 6,90% semestrale, oltre interessi di mora, ed ulteriori spese e competenze determinate in contratto, garantito da ipoteca volontaria su compendio immobiliare di esclusiva proprietà della mutuataria società; 3) un rapporto di mutuo rinveniente (sempre con atto per Notar Francesco Denora, stipulato in Bari, il 31. 5.1989 - rep. 14861; racc. 5605) con BANCO DI NAPOLI SpA, e pedissequo atto di erogazione a saldo e quietanza (con atto per Notar Denora, stipulato in Bari, il 16.6.1989 - Rep. 14816, Racc. 5605) per lire 1.000.000.000, da rimborsarsi, a tasso variabile, mediante n. 20 rate semestralità di ammortamento, ciascuna dell’importo di lire 32.781.188, all’interesse corrispettivo al 6,50% semestrale, oltre interessi di mora, ed ulteriori spese e competenze determinate in contratto, garantito in ipoteca volontaria su compendio immobiliare di esclusiva proprietà della mutuataria società. Tali essendo i contenuti essenziali dei contratti per cui è causa, occorre ora individuare la disciplina applicabile.
Con riferimento all’apercredito con affidamento mediante scopertura su c/c, di cui al precedente punto 1), reputa questo Giudice che, traendo origine il rapporto per cui è causa da un’apertura di credito con facoltà di scoperto in conto corrente, che trova, a sua volta, origine nel contratto base (stipulato il data 10.2.1988), debba farsi riferimento alla normativa in vigore all’epoca di sottoscrizione del contratto. Ciò, in quanto, dopo l’ 8 luglio 1992 (data dell’entrata in vigore della Legge 154/92 ed ancor più dopo il 1° gennaio 1994 (data di entrata in vigoe del D.Lgs. n 385 del 1993, noto anche come T.U.B., che ha
inglobato la c.d. legge sulla trasparenza) soltanto gli eventuali ed ulteriori contratti successivamente sottoscritti dal cliente (oltre che dalla banca) possono modificare l’originaria pattuizione e nessun valore hanno eventuali atti unilaterali della banca e, men che meno, avvisi affissi nei locali della stessa, raccomandate, ecc.. Infatti, è necessario ed indispensabile il consenso del cliente per poter conferire alla banca un diritto esclusivo così pregnante come lo ius variandi (Cfr., artt. 117 e 118 del TUB): non si può automaticamente concedere alla banca detta potestà senza un’espressa autorizzazione del cliente prestata successivamente all’entrata in vigore della Legge 154/92 e del TUB. Non va trascurata la circostanza che lo stesso TUB prevede la necessità della forma scritta (Cfr., art. 117, commi 1 e 3 del TUb) e l’incontro della volontà della banca con quello dell’utente: pertanto, non può assolutamente utilizzarsi il consenso espresso in un modulo anteriore all’entrata in vigore del TUB per poter conferire alla banca uno ius variandi inesistente all’epoca della sottoscrizione contrattuale.
Va poi evidenziato il vincolo esistente tra il rapporto tra c/c ordinario n. 27.1845 e c/c secondario n. 60/06 (utilizzato per anticipazione sconto effetti SBF): trattasi in realtà di un rapporto unitario ed iscindibile essendo evidente che la confluenza delle competenze riversate dal conto corrente secondario in quello ordinario, a mezzo di diversi
giroconto, determinano una tale commistione di competenze (tra loro sommate, capitalizzate, moltiplicate con varie commissioni) che non è possibile analizzare il saldo del conto corrente principale senza analizzare quelle del conto corrente secondario in quando determinanti alla formazione del saldo contabile finale. L’illegittimità delle competenze del conto secondario vanno, pertanto, analizzate ed espunte in quanto se riversate nel conto principale provocano in se e per se l’invalidità del saldo finale.
Chiarita la disciplina applicabile ai rapporti contrattuali, oggetto del presente giudizio, occorre affrontare la questione della possibile decadenza e prescrizione del diritto alla restituzione.
Relativamente al problema della decadenza derivante dalla mancata contestazione degli e/c bancari, ritiene questo Giudicante di poter aderire al consolidato orientamento giurisprudenziale di legittimità e di merito (
Cfr., ex multis, C.Cass., n.870 del 18.1.2006; C.Cass., n. 11961 dell’8.8.2003; C. Cass. 16.1.1997, n.404; Appello Lecce, n. 568 del 18.09.2008; Trib. Teramo n.23 del 2006; Trib. Lecce n.1959 del 2005), secondo cui l’eventuale ed anche ripetuta approvazione di estratti conto, ex artt. 1832 e 1857 c.c. rende realmente incontestabili le annotazioni in conto, che derivano dalla mancata impugnazione, ma non comporta la decadenza da eventuali eccezioni, riferite alla validità ed efficacia dei rapporti obbligatori soprastanti.
Per altro verso, relativamente al problema della prescrizione, va detto che mentre l'azione promossa dal cliente verso la banca per far valere la nullità della clausola che prevede l'anatocismo è imprescrittibile ai sensi dell'art. 1422 c.c., quella proposta dallo stesso cliente nei confronti della banca ai fini di conseguire la ripetizione delle somme che assume di avere versato a titolo di capitalizzazione trimestrale degli interessi è soggetta ai medesimi principi che regolano la domanda di ripetizione di indebito. Essa è pertanto soggetta alla prescrizione ordinaria decennale a norma dell'art. 2946 c.c., non potendo farsi riferimento ne alla prescrizione breve del diritto al risarcimento del danno trattandosi di obbligazione derivante dalla legge e non da obbligazione ex delicto, ne quella quinquennale di cui all'art. 2948 n. 3 c.c. Parimenti è da escludere l'applicabilità della prescrizione di cinque anni prevista dall'art. 2948 n. 4 c.c., che riguarda esclusivamente la domanda diretta a conseguire gli interessi che maturano annualmente o in termini più brevi, non già la restituzione di parte degli stessi in quanto indebitamente pagata. Può convenirsi, quindi, con le argomentazioni attoree che, nel caso di specie, non sussite alcun problema di prescrizione, atteso che il
dies a quo della prescrizione decennale decorre dalla data di chiusura del rapporto. Nel caso che ci occupa, il rapporto è stato, appunto, chiuso da meno di dieci anni dalla notifica dell’atto di citazione (infatti, al 31.12.1994 l’allora Banco di Napoli dichiarava un complessivo presunto credito di lire 547.414.324 e la citazione è stata notificata il 17.4.2001) e l’impugnazione del rapporto entro dieci anni dalla chiusura fa sì che l’esame si possa estendere all’intero rapporto dalla prima operazione in apertura all’ultima operazione, ossia al saldo finale. Infatti, pecularietà dell’apertura di credito in conto corrente sono la continuità e la unitarietà. Liquidità ed esigibilità sono fenomeni e situazioni non caratterizzanti lo svolgimento di un rapporto di conto corrente bancario: mentre la peculiarità giuridica del conto corrente bancario è segnata, non da una frantumazione infinitesima in scadenze del rapporto contrattuale (come taluni errando vorrebbero far credere: cfr. Tribunale di Novara, sentenza n. 145 del 9.02.06), ma da una naturale continuità e fluidità del rapporto stesso, destinata a interrompersi solo con l'esaurimento del rapporto e la revoca della linea di credito (Cfr., Tribunale di Genova, Sez. VI, 10 maggio 2006 – GU Marchesiello, Corr. Giur. 8/2007 pag. 1147 e ss ). Ecco perché, nella pratica, il correntista, se da un lato può ogni giorno chiedere l’apparente saldo contabile, dall’altro può anche chiedere la simulazione della chiusura del suo conto corrente (sempre che tutte le operazioni si siano concluse: spesso vi sono, infatti, operazioni in corso che non permettono la chiusura del conto in giornata): ma solo la chiusura definitiva del conto corrente è il momento naturale e funzionale nel quale finisce il rapporto, con un saldo finale certo, liquido ed esigibile e, dunque, solo ed esclusivamente da questo momento può partire la prescrizione (Cfr., Cass. C., n. 10127 del 14.5.2005; Cass. C., n. 5720 del 23.3.2004; Cass. Civ. n. 4389 del 3.5.1999; Cass. Civ., n. 3783 del 14.4.1998; Cass. Civ. n. 2262 del 9.4.1984 e, da ultimo, C. App. Lecce, n. 568 del 18.9.2008; Trib. Vigevano, 12.2.2008).
Per quanto attiene al presunto carattere naturale dell’obbligazione contratta dall’utente con la banca, questo Giudice ritiene di poter aderire all’orientamento espresso dalle S.U. del Supremo Collegio nella sentenza n.21095 del 4.11.2004, che ha ribadito l’assenza di un obbligo morale, sociale o etico del cliente verso la banca, laddove si versi in ipotesi di una richiesta di pagamento di interessi superiori al tasso legale e quelli derivanti dalla capitalizzazione. Tanto meno, può ritenersi sussistente un’obbligazione naturale, laddove l’utente bancario è costretto ad una dazione di denaro, che trova fondamento in una prassi illegittima, qual è quella della capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi o degli interessi ultralegali, letteralmente imposta dagli istituti di credito ai clienti (in forza di direttive classiste) e in nessun caso negoziabile. Se è vero che le obbligazioni naturali si fondano su doveri morali o sociali, di ampia diffusione e condivisione, è altrettanto vero che l’addebito sul conto corrente bancario degli interessi ultralegali, non pattuiti,
ex art. 1284 c.c., per atto scritto, non comporta per il cliente l’adempimento di un’obbligazione naturale, essendo in tale ultima ipotesi carenti gli elementi richiesti dall’art. 2034 c.c., quali la volontà di pagamento, la spontaneità, nonché il dovere morale o sociale. Stante l'atteggiamento psicologico del cliente in genere costretto a sottoscrivere le clausole di volta in volta predisposte dalla banca a causa della sua necessità di usufruire del relativo credito, non sono configurabili i presupposti necessari per la configurabilità di un c.d. obbligazione naturale.
Quanto all’anatocismo bancario è, oramai, circostanza giuridicamente pacifica trattarsi di prassi illecita e, parimenti, illegittimo è l’addebito di interessi ultralegali non pattuiti a norma dell’art. 1284 c.c.: pertanto, sono illegittime le annotazioni degli interessi ultralegali, capitalizzati (poco importa se trimestralmente o annualmente), effettuate dalla banca. Anche la più condivisibile Giurisprudenza di legittimità e di merito (
Cfr., Trib. Cassino, 29.10.2004; App. Lecce 17.12.2000), così come questo Giudice, ritiene che il pagamento degli interessi con capitalizzazione trimestrale non costituisca adempimento di obbligazione naturale ed irripetibile, soprattutto se si considera che la famigerata clausola “uso piazza" è del tutto generica e non consente assolutamente di stabilire il tasso di riferimento, cui le parti hanno inteso riportarsi, e praticamente abilita la banca alla massima discrezionalità e unilateralità. Similmente corretto è l'ulteriore rilievo, secondo cui le questioni riguardanti la validità della clausola negoziale relativa agli interessi determinati in base ai tassi usualmente praticati sulla piazza dalle aziende di credito nonché quelle sulla validità della clausola che preveda l'anatocismo nella forma della capitalizzazione trimestrale si collocano nell'area delle nullità rilevabili d'ufficio ai sensi dell'art. 1421 c.c. in quanto comportano una violazione di legge, la cui rilevabilità d'ufficio ben si concilia nel caso in esame anche con il principio della domanda, non potendosi in ogni caso dubitare che la difesa degli opponenti si sia svolta nell'ambito della patologia del negozio (cfr. Cass. C. n. 870 del 18.1.2006; Cass. C., n. 10127 del 14.5.2005; Cass. C. 25.2.2005). E ciò, senza ulteriormente argomentare sulla coazione psicologica, che la banca esercita sul cliente ‘in rosso’, cui minaccia – quale male ingiusto e, sovente, di grave portata – ‘rientro’ forzato e repentino e rottura brutale dei rapporti. Aderendo a tale orientamento, questo Giudice ritiene che i debiti per cui è causa non possano certamente intendersi come “riconosciuti” dagli attori i debiti verso le Controparti per il sol fatto che si siano da essi portate avanti trattative con la banca, nel tentativo di comporre bonariamente il problematico e complesso rapporto con essa pendente, evitandosi mali maggiori. Le promesse di pagamento degli attori alla convenuta devono essere interpretate come tali, ossia come dichiarazioni prive di qualsiasi valenza confessoria, non dichiarazioni di scienza, che non possono essere fonte di obbligazione. E’ comprensibile lo stato d’animo del cliente, che teme un’aggressione dei propri beni e di quelli degli eventuali garanti da parte della banca, che sollecita il c.d ‘rientro’; stato d’animo, che può paragonarsi a quello di chi, promettendo, afferma “coactus, tamen volui”. E' pacifico, quindi, che la dichiarazione, che segue all'intimazione della banca di ripiano della posizione debitoria con l'avvertimento che, in difetto, sarebbero state avviate azioni legali, non certo costituisce confessione. Per Giurisprudenza costante (C. Cass. Civ., 2.7.1987, n. 5776, C. Cass. Civ., Sez. Lavoro, 23.1.1997, n. 712; C. App. Lecce, 18.9.2008), a cui tra l'altro il Giudice ritiene di uniformarsi, le dichiarazioni rese da una parte all'altra in sede transattiva non integrano confessioni, per mancanza di “confitendi” (intenzione cioè di ammettere un fatto sfavorevole al dichiarante) ed essendo invece strumentali al proposito di evitare la lite attraverso reciproche concessioni. La predetta comunicazione si sostanzia pertanto in una semplice asserzione di debito (e naturalmente in una proposta in ordine alle modalità di pagamento), integrando una semplice dichiarazione di volontà del debitore, con la quale egli indirettamente assume di essere tale, e non certo di scienza. Detta dichiarazione non contiene neppure un vago accenno ai fatti storici costitutivi del rapporto fondamentale di conto corrente e correlativamente alle obbligazioni che ne derivano (non racchiude fatti storici, quali la ricezione di una determinata somma capitale, un intervento finanziario, la esistenza di determinate pattuizioni e degli effetti che sul piano concreto ne derivano), ma si sostanzia unicamente in una asserzione di debito, stante la correlazione sul piano logico della predetta asserzione con il previo riconoscimento del debito stesso. Dunque, sul punto, questo Giudicante ritiene di poter aderire al’orientamento della Suprema Corte, secondo cui la promessa ricognitiva ha il principale effetto di comportare l'inversione dell'onere della prova circa l'esistenza della causa debendi (Cfr., ex multis, Cass. Civ., 18.1.2006 n. 870; C. Cass. Civ. 13.1.1997 n.259; C. Cass. Civ. 6.8.1997 n.7267; C.Cass. Civ. 23.1.1997 n.712; C. Cass., n.9777/90; C. Cass. Civ., n.3585/79; C. Cass. Civ., Sez. II, 14.1.1997 n.280; C. Cass. Civ., Sez. III, 15.5.1997 n.4276; C. Cass. Civ., Sez. I, 9.8.1994 n.7348).
Vanno, pertanto, rilevate d’ufficio e, ovviamente, accolte – in quanto fondate in fatto ed in diritto – le eccezioni delle parti attrici.
Esse parti rilevano, anzitutto, la nullità ed inefficacia della clausola anatocistica, ossia della cosiddetta capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi, per violazione dell'art. 1283 c.c.. La censura è fondata.
Orbene, con riferimento a tale questione, è oramai noto l'indirizzo più recente della Suprema Corte, che ha ritenuto nulla la previsione contenuta nei contratti di conto corrente bancario, avente ad oggetto, appunto, la capitalizzazione trimestrale degli interessi dovuti dal cliente, giacché essa si basa su un mero uso negoziale e non su una vera e propria norma consuetudinaria, ed interviene anteriormente alla scadenza degli interessi (
Cfr., C. Cass. Civ., S.U., 4.11.2004, n. 21095). Questo Giudice ritiene anch’egli che gli usi contrari suscettibili di derogare al precetto dell’art. 1283 c.c., sono non i meri usi negoziali di cui all’art. 1340 c.c., ma esclusivamente i veri e propri usi normativi, di cui agi artt. 1 e 8 disp. prel.c.c., che consistono nella ripetizione generale, uniforme, costante e pubblica di un determinato comportamento (usus), accompagnato dalla convinzione che si tratta di comportamento giuridicamente obbligatorio, conforme a una norma già esistente o che si ritiene sia nell'ordinamento giuridico (opinio iuris ac necessitatis). Gli utenti bancari “si sono nel tempo adeguati all'inserimento della clausola anatocistica non in quanto ritenuta conforme a norme di diritto oggettivo già esistenti o che sarebbe auspicabile fossero esistenti nell'ordinamento, ma in quanto comprese nei moduli predisposti dagli istituti di credito, in conformità con le direttive dell'associazione di categoria, in suscettibili di negoziazione individuale e la cui sottoscrizione costituiva al tempo stesso presupposto indefettibile per accedere ai servizi bancari” (Così, C. Cass. Civ., S.U., 4.11.2004, n. 21095). Inoltre, dagli “Accertamenti camerali delle consuetudini ed usi locali al 30 giugno 1961”, rilevati dalla Direzione Generale del Commercio presso il Ministero dell’Industria e del Commercio, si rileva che in quella data non esisteva un valido uso anatocistico sul territorio nazionale e, pertanto, non si potrà mai ammettere l’affermarsi di un uso contra legem.
Alla nullità della capitalizzazione trimestrale degli interessi, a parere dello scrivente, non è poi possibile supplire con altra tipologia avente diversa cadenza temporale. L’anatocismo e la capitalizzazione degli interessi è ammessa solo nei tre casi eccezionali previsti dall'art. 1283 c.c.. In mancanza di usi normativi contrari, infatti, gli interessi scaduti possono produrre interessi solo dal giorno della domanda giudiziale o per effetto di convenzione posteriore alla loro scadenza (mentre il contratto di conto corrente bancario si pone a monte del successivo maturarsi dell’interesse), e sempre che si tratti di interessi dovuti almeno per sei mesi. Se non ricorre nessuna delle ipotesi tassativamente contemplate dall’art. 1283 c.c., le banche non possono chiedere ed ottenere la capitalizzazione annuale degli interessi passivi. L’art. 1283 c.c. è chiarissimo nell’enunciare la illegittimità di qualunque interesse sull’interesse, al di fuori delle specifiche e tassative ipotesi previste. Se si volesse aderire al minoritario orientamento, secondo cui sul debito di interessi annualmente scaduto maturerebbero altri interessi, come per qualsiasi obbligazione pecuniaria e a prescindere dai limiti di cui all'art. 1283 c.c., si incorrerebbe in un’interpretazione in stridente contrasto con l'orientamento proprio delle S.U. del Supremo Collegio (vedi C.Cass., 17.7.2001, n. 9653), alla luce del quale, il debito degli interessi (anche quando sia stata adempiuta l'obbligazione principale) non si configura come una qualsiasi obbligazione pecuniaria, dalla quale derivi il diritto agli ulteriori interessi dalla mora, nonché al risarcimento del maggior danno
ex art. 1224, comma II, c.c., ma resta soggetto alla regola dell'anatocismo di cui all'art. 1283 c.c., derogabile soltanto dagli usi contrari ed applicabile a tutte le obbligazioni aventi ad oggetto originario il pagamento di una somma di denaro sulla quale spettino interessi di qualsiasi natura.peculiarità dell'obbligazione di interessi risiede nella regola anatocistica. Anche la capitalizzazione annuale è illegittima, se in contrasto con l'art. 1283 c.c. (C.Cass. Civ., Sez. III, 2.10.2003, n. 14688).
Parti attrici rilevano, inoltre, la nullità ed inefficacia delle non convenute C.M.S.. La censura è fondata.
Appare, poi, nulla per assenza di causa negoziale l’applicazione della c.d. commissione di massimo scoperto, in quanto, a differenza della natura storica dell’istituto, non costituisce più, con l’attuale formulazione, una remunerazione per il mancato utilizzo del credito concesso. Infatti, si tratta di una sorte di duplicazione dell’interesse con un metodo di calcolo del tutto slegato da una ragionevole giustificazione. “Abbiamo già in passato richiamato l'attenzione sulla commissione di massimo scoperto, un istituto poco difendibile sul piano della trasparenza.”:
sono queste le parole del GoV.tore della Banca d’Italia all’assemblea del 31 maggio 2008. Tuttavia, le CMS difettano, nel caso in esame, di esplicita previsione contrattuale, avendo anche riguardo al metodo di calcolo di volta in volta applicato (Cfr., Trib. Vigevano, Sent. 1202/2008). La C.M.S., al pari di ogni altra condizione contrattuale, deve essere determinata o almeno determinabile al momento in cui il contratto è stato concluso. Pertanto, operando un rinvio a tutte le considerazioni svolte sulla nullità della clausola di rinvio agli interessi uso piazza, può concludersi che tale nullità non può che riguardare, nel caso di specie, anche la pattuizione della C.M.S., stante la mancanza di elementi certi e predeterminati per la sua concreta quantificazione. La nullità dell'addebito delle commissioni di massimo scoperto va dichiarata anche perché oltre a non essere espressamente previste nel contratto, costituisce una indebita integrazione del tasso di interesse applicato. La previsione e/o applicazione della CMS nel contratto di c/c è priva di giustificazione causale, in quanto nel corso degli anni ha perso l'originaria funzione di c.d. sul mancato utilizzo dell'affidamento accordato, divenendo una voce di costo, avulsa da ogni logica contrattuale e sinallagmatica (Cfr., ex plurimis, C.App. Milano, Sez. III Civ., sent. n. 1142 del 4.4.2003; Trib. Lecce, 21.11.2005; Trib.Lecce, 11.3.2005; Trib. Milano, 4.7.2002; Trib. Vibo Valentia, sent. n. 23 del 2006).
Le parti attrici hanno anche sollevato la questione dell’invalidtà dell’addebito delle c.d. “valute fittizie”, ossia del non condivisibile metodo che la banca utilizza per protrarre fittiziamente i giorni solari del prestito dell’utente, favorendo l’aumento degli interessi debitori in favore di essa per un periodo temporale in cui prestito non c’è stato. Deve convenirsi con gli attori e con la Giurisprudenza di legittimità (
Cfr., C.Cass. Civ., n. 2545/72) che vada considerata soltanto la ‘data’ di ciascuna operazione e non già la ‘valuta’, posto che, ai sensi dell’art. 1852 c.c., il correntista può disporre in qualsiasi momento delle somme risultanti a suo credito dal conto. Va certamente condiviso l'orientamento giurisprudenziale, secondo il quale – per quanto riguarda i prelevamenti – si deve riportare la valuta corrispondente al giorno del pagamento dell'assegno, ovvero del giorno in cui la banca perde effettivamente la disponibilità del denaro; mentre, per quanto riguarda i versamenti, si riporta la valuta corrispondente al giorno in cui la banca acquista effettivamente la disponibilità del denaro (Sul punto, si vedano, Trib. Civ. Lecce, sent. del 17.6.2003 n. 1736; C.Cass., Sez. I Civ., sent. 26.7.1989, n. 3507; C.Cass. Civ., 29.6.1981 n. 4209 e 20.2.1988, n. 1764; C.Cass. Civ., Sez. I, 10.9.2002, n. 13143). Di qui, la necessità di computare le operazioni di accredito effettivo delle valute dal giorno in cui la banca ha acquisito o perduto la disponibilità dei correlativi importi, ovvero, dato che è fatto notorio che tutte le operazioni avvengono dagli anni ’80 in tempo reale, data la totale informatizzazione del sistema bancario, dal giorno dell’operazione. La valuta fittizia, a ben vedere, costituisce un artificio per il quale la durata dell’anno solare viene fittiziamente allungata, addebitando interessi debitori non dovuti, o accorciata nell’ipotesi inversa di accredito di interessi creditori per l’utente.
Questo Giudice ritiene, duque, che l’addebito di interessi per valute, fittiziamente appostate, è invalido per mancanza di valida giustificazione causale.
Con riferimento ai due contratti di mutuo, stipulati dalle parti attrici con Banco di Napoli, già descritti in questa motivazione, la espletata CTU ha evidenziato che nel piano di ammortamento allegato al contratto e nel corso del medesimo rapporto è stato applicato un Tasso effettivo diverso e superiore, rispetto a quello convenuto nella parte letterale del medesimo contratto. Mentre nella parte letterale del contratto si stabilisce un tasso rispettoso del sistema civilistico italiano della maturazione dei frutti civili, nel piano di ammortamento viene applicato, in maniera del tutto inaspettata, qualto illegittima, il c.d. ‘ammortamemento alla francese’: ossia un metodo che comporta la restituzione degli interessi con una proporzione più elevata in quanto contiene una formula di matematica attuariale, giusta la quale l’interesse applicato è quello composto e già non quello semplice (previsto dal nostro codice civile all’art. 821, comma 3). Ora, se da un lato, il creditore può scegliere di imputare il rimborso prima agli interessi che al capitale o proporzionalmente ad entrambi o, ancora, al solo capitale; dall’altro lato, lo stesso creditore, nel momento in cui viene convenuto il tasso contrattuale, deve tenere conto dell’incidenza sui costi, che comporta la modalità prescelta per il rimborso, e sul tasso, che deve restare sempre pari a quello contrattualmente convenuto. In definitiva, possiamo affermare che il diritto stabilito per il creditore dall’art. 1194 c.c., rispetto all’imputazione del rimborso del credito, non può divenire un diritto di incrementare surrettiziamente il tasso (pattuito ai sensi dell’art. 1284 c.c.), gli interessi e la remunerazione del capitale prestato. Ad avviso del Giudicante, il tasso nominale di interesse pattuito letteralmente nel contratto di mutuo non si può assolutamente maggiorare nel piano di ammortamento, né si può mascherare tale artificioso incremento nel piano di ammortamento, poichè il calcolo dell’interesse nel piano di ammortamento deve essere trasparente ed eseguito secondo regole matematiche dell’interesse semplice (
Cfr., ColA.).
La banca, che utilizza nel contratto di mutuo questo particolare tipo di capitalizzazione, viola non solo il dettato dell’art. 1283 c.c. ma anche quello dell’art. 1284 c.c., che in ipotesi di mancata determinazione e specificazione, ovvero di incertezza (tra tasso nominale contrattuale e tasso effettivo del piano di ammortamento allegato al medesimo contratto), impone l’applicazione del tasso legale semplice e non quello ultralegale indeterminato o incerto. La sanzione dell’interesse legale è prevista e disposta dalla norma imperativa dell’art. 1284 c.c.
I contratti di mutuo per cui è causa sono mutui con rimborso frazionato, in cui alla banca, durante il rapporto, si restituisce ratealmente il capitale, originariamente prestato, prima della scadenza finale del mutuo stesso: i mutui
de quibus vengono estinti con una serie di pagamenti (rate), effettuati dal debitore. La rata del mutuo con rimborso frazionato si è calcolata, però, nel caso in esame, con la formula del c.d. interesse composto, non prevista nella parte letterale del medesimo contratto, che comporta la crescita progressiva del costo, comprendendo di fatto degli interessi anatocistici. La CTU ha evidenziato un aumento del costo effettivo del rapporto, conseguente alla divaricazione fra il tasso nominale e quello effettivo: cresce quest’ultimo con il crescere del frazionamento del pagamento, poiché più sono le rate, più costa il mutuo. Gli attori al momento della sottoscrizione dei contratti, non sono resi conto dell’alto tasso effettivo, che avrebbero dovuto corrispondere alla banca, in quanto il tasso nominale annuo era davvero quello apparente e determinato nella parte letterale del contratto, mentre lìaltro era occultato nel piano di ammortamento. Bisogna accogliere le doglianze attoree, secondo cui per tutta la durata dei mutui si è verificata un’accentuata discrasia tra quanto indicato dal tasso di riferimento e quanto espresso e determinato dai piani di ammortamento: la parte mutuataria era convinta di pattuire un contratto di mutuo con la banca convenuta, stabilendo di remunerare il prestito con il pagamento di interessi in misura non superiore al tasso nominale, ad esempio del 13% semestrale; invece, le risultanze della espletata CTU hanno evidenziato che, per il mutuo da 350.000.000, di lire gli attori dovuto sopportare un tasso effettivo annuale del 14,276%.
Questo Giudice deve rilevare che nei contratti di mutuo per cui è causa vi è stata l’applicazione della capitalizzazione composta, con riferimento anche agli interessi di mora e a quelli corrispettivi, ed aderisce all’orientamento della Suprema Corte (C. Cass. Civ., sent. n. 2593 del 20.2.2003), che ha ritenuto applicabile l’art. 1283 c.c. anche ai contratti di mutuo, con il risultato che gli interessi scaduti per il mancato pagamento di una rata (in assenza di usi normativi contrari precedenti al 1942) producono ulteriori interessi solo se la banca propone una domanda giudiziale contro il cliente o se ciò si conviene dopo la scadenza del contratto. D’altronde, il Supremo Collegio (vedasi, da ultimo, C. Cass., n. 5286/2000), ha stabilito che in un mutuo, con rate costanti (ma anche non costanti), che comprendono parte del capitale e gli interessi, tali interessi non possono certamente divenire capitale da restituire a chi l’ha concesso. Reputa questo Giudice che debba esplicitarsi il tasso effettivo del mutuo secondo la legge dell’interesse semplice (
Cfr., art. 1284 c.c.), per la quale detto interesse è la differenza, alla fine del rapporto, tra l’importo rimborsato e quello prestato. Tale esplicitazione non è, nel caso di specie, avvenuta in quanto nello stesso contratto notarile si è proceduto, nel piano di ammortamento allegato, alla capitalizzazione degli interessi (c.d. ammortamento alla francese), mentre nella parte letterale non è prevista una clausola specifica di capitalizzazione degli interessi: ciò importa la coesistenza in uno stesso contratto di due differenti tassi, con la determinazione di un’assoluta incertezza su quale dei due tassi convenuti sia effettivamente quello convenuto ed applicabile. Evidentemente è un sistema per dichiarare nella parte comprensibile del contratto un tasso minore di quello successivamente esplicato numericamente (quindi in forma intelligibile per la massima parte dei clienti) nel piano di ammortamento.
La espletata CTU mirava, dunque, anche a stabilire quanto segue : “A) Con riferimento al rapporto di apertura di credito mediante affidamento con scopertura sul c/c ordinario n.27.1845 nonché su c/c n.60.6 per anticipazione sconto effetti sbf stipulato nel febbraio 1998: 1 - calcolare l'ammontare complessivo delle competenze addebitate a titolo di interessi ultralegali, interessi anatocistici, c.m.s., ad. giorni valuta e spese tenuta conto per tutta la durata del rapporto ; 2 - determinare l'effettivo dare-avere in regime di saggio legale di interesse, senza capitalizzazioni e commissioni di massimo scoperto trimestrali, computando le valute delle singole operazioni dal giorno in cui la banca ha acquistato o perduto la disponibilità degli dei relativi importi, con esclusione delle c.d. spese di tenuta conto.; B) Con riferimento agli impugnati contratti di mutuo: 1 - calcolare il tasso effettivamente applicato al contratto di mutuo ; 2 - accertare se il tasso effettivo corrisponde a quello indicato nel contratto di mutuo (o nell'atto di erogazione e quietanza); 3 - calcolare la rata dovuta applicando il tasso indicato nel contratto (il tasso effettivo deve coincidere con quello indicato nel contratto) tenendo conto delle date di erogazione e dei rimborsi; se la rata così calcolata risulta inferiore a quella prospettata nel piano di ammortamento, calcolare il maggiore costo complessivo del finanziamento; 4 - se il tasso indicato nel contratto non corrisponde a quello effettivo applicato: I. sviluppare un nuovo piano di ammortamento utilizzando il tasso legale vigente alla sottoscrizione del contratto; II. adeguare il tasso per il calcolo degli interessi ai saggi legali vigenti nei successivi periodi; III. calcolare il debito residuo (seguendo i criteri di cui ai punti I. e II.) alla data di estinzione naturale del contratto tenuto conto dei versamenti pro tempore effettuati.”.
Il CTU giungeva alle seguenti conclusioni: a) Per quanto attiene ai quesiti sub (A): n°1:
l'ammontare complessivo delle competenze addebitate a titolo di interessi ultralegali, interessi anatocistici, c.m.s., c.d. giorni valuta e spese tenuta conto per tutta la durata del rapporto è risultato pari ad € 476.240,48 (Lire 922.130.533) così suddivise: - interessi a debito L. 724.728.697 (€. 374.187,84); - interessi a credito L. 510.989 (€.263,90); C.M.S. L. 195.364.325 (€.100.897,25); Spese L. 2.748.500 (€.1.419,48); n°2: l'effettivo dare-avere in regime di saggio legale di interesse, senza capitalizzazioni e commissioni di massimo scoperto trimestrali, computando le valute delle singole operazioni dal giorno in cui la banca ha acquistato o perduto la disponibilità degli dei relativi importi, con esclusione delle c.d. spese di tenuta conto è pari a: Saldo a deb. in linea capitale L. 51.537.703 (€. 26.617,00); Interessi passivi L. 104.422.575 (euro 53.929,76); interessi attivi L. 1.137.264 (euro 587,35); Saldo debito correntista L. 154.823.014 (euro 79.959,41).
In sostanza, applicando gli interessi nella misura legale, con esclusione di qualsiasi forma di capitalizzazione degli interessi, escludendo la commissione di massimo scoperto, e computando infine le operazioni di accredito effettivo delle valute dal giorno in cui la banca ha acquisito o perduto la disponibilità dei correlativi importi, la CTU tecnico-contabile ha evidenziato che il debito effettivo degli attori è appena superiore ad un quarto della somma ad essi richiesta dalla banca convenuta.
Per quanto attiene ai quesiti sub (B) il CTU ha rilevato che : n.1)
il tasso applicato nel piano di ammortamento (e nell’esecuzione del rapporto) al contratto di mutuo rep. n°13439 (quello di lire 350.000.000) è pari al 14,276%; il tasso applicato nel piano di ammortamento (e nell’esecuzione del rapporto) applicato al contratto di mutuo rep. n°14885 (quello di lire 1.000.000.000) è pari al 13,423%. Da tanto discende che il tasso del piano d’ammortamento (14,276%) non corrisponde a quello indicato nella parte letterale del contratto di mutuo di Lire 350.000.000 rep. n°13439 (13,8 % annuale) e che il tasso del piano d’ammortamento (13,423%) non corrisponde a quello indicato nel contratto di mutuo di Lire 1.000.000.000 rep. n°14885 (13 annuale %). Ancora, il CTU ha accertato che la rata dovuta, per il mutuo rep. n° 13439, applicando il tasso indicato nel contratto sarebbe stata pari a Lire 32.212.961 (€ 16.366,61), comportando un maggiore costo complessivo del finanziamento di (Lire 655.623.764 - Lire 644.259.219) = Lire 11.364.545, pari ad € 5.869,30; la rata dovuta, per il mutuo rep. n° 14885, applicando il tasso indicato nel contratto sarebbe stata pari a Lire 89.330.225 (€ 46.135,21), comportando un maggiore costo complessivo del finanziamento di (Lire 1.815.127.907 – Lire 1.786.604.491) = Lire 28.523.416 pari ad € 14.731,11.
La consulenza tecnico-contabile, disposta da questo Giudice, ha elaborato differenti piani di ammortamento, che utilizzano il tasso legale vigente alla sottoscrizione del contratto (in applicazione di quanto previsto dall’art. 1284 c.c. nelle ipotesi di indeterminatezza del tasso), adeguando il tasso alle variazioni intervenute, ed ha calcolato il debito residuo alla data di estinzione naturale del contratto, evidenziando saldi minori dovuti dagli attori, rispetto a quelli quantificati dalla convenuta.
La situazione contabile relativa al mutuo con rep. N°13439 di lire 350.000.000 ammonta ad euro 121.232,96.
La situazione contabile relativa al mutuo con rep. N° 14885 di lire 1.000.000.000 ammonta ad euro 433.583,53.
Al 10.4.2000, tuttavia, il conteggio degli interessi si considera cristallizzato, in quanto a tale dato la V. Srl è stata ammessa alle procedure di amministrazione controllata ed al successivo concordato.
Rigetta tutte le altre domande di parte attorea e contiene il residuo credito della banca, come evidenziato in CTU, nella misura di € 79.959,41 oltre interessi legali semplici, per il contratto di apertura di credito con scoperto di conto corrente bancario; di euro 121.232,96, relativamente al mutuo con rep. N°13439 di originarie lire 350.000.000 e di euro 433.583,53 relativamente al mutuo con rep. N° 14885 di originarie lire 1.000.000.000, sempre oltre interessi legali semplici.
Tenuto conto dell’accoglimento della domanda attrice, per quanto di ragione, e per l’effetto della sensibile riduzione dell’esposizione debitoria si ritiene di compensare per i 2/3 le spese di giudizio, condannando per il residuo 1/3 la banca al pagamento delle competenze processuali e di tutte le spese di CTU.

P.Q.M.

Il Giudice Onorario del Tribunale di Bari - Sezione Distaccata di Rutigliano, definitivamente pronunciando sulla domanda proposta da V. S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, Avv. A. G. V., nonché per i sigg.ri A. G., Pietro e V. N. L. V. nei confronti di INTESA SAN PAOLO IMI S.p.A. (incorporante del Banco di Napoli Spa), in persona del suo rappresentante pro tempore, e di INTESA SAN PAOLO IMI S.p.A. (incorporante del Banco di Napoli Spa), in persona del suo rappresentante pro tempore, così provvede: accoglie la domanda per quanto di ragione e, per l'effetto:
1) dichiara l’invalidità a titolo di nullità parziale del contratto di apertura di credito mediante affidamento con scopertura sul conto ordinario c/c n.27.1845 e sul conto secondario confluente c/c n. 60/6 per anticipazione su effetti SBF, oggetto del rapporto tra parte attrice e convenuta, con riferimento alle clausole di determinazione e di applicazione degli interessi ultralegali, di determinazione ed applicazione dell’interesse anatocistico con capitalizzazione trimestrale, all’applicazione della provvigione di massimo scoperto, all’applicazione degli interessi per giorni valuta, all’applicazione delle spese forfetarie, determinando così il residuo dare di parte attrice, per come evidenziato nella CTU in atti, in € 79.959,41 oltre interessi legali semplici;
2) dichiara l’annullamento parziale dei contratti di mutuo sopra indicati ed in particolar modo, ai sensi dell’art. 1284 c.c., 1283 c.c. e 1419 c.c., la nullità della clausola dell’interesse ultralegale nella parte in cui vi è stata accertata la difformità tra tasso contrattuale dichiarato nella parte letterale ed il superiore tasso numerico effettivamente applicato nel piano di ammortamento allegato al medesimo contratto, determinando così il residuo dare di parte attrice, per come evidenziato nella CTU in atti, ricalcolato al tasso legale semplice di volta in volta vigente, in euro 121.232,96, relativamente al mutuo con rep. N°13439 di originarie lire 350.000.000 ed in euro 433.583,53 relativamente al mutuo con rep. N° 14885 di originarie lire 1.000.000.000, oltre agli interessi legali semplici.
3) compensa per i 2/3 le spese legali e condanna le convenute, in solido fra loro, al pagamento delle spese e competenze residue del giudizio, che liquida per il restante 1/3 in complessivi € 5.000,00, di cui € 170,00 per esborsi - oltre le spese di C.T.U., ove effettivamente corrisposte dagli attori -, € 1.830,00 per diritti ed € 3.000,00 per onorari, oltre spese forfetarie, IVA e CAP come per legge, con distrazione a favore dell’Avv. Antonio Tanza, dichiaratosi antistatario.
Rutigliano, 29 ottobre 2009

Il Giudice

Dott. Pietro MASTRONARDI
Cancelliere


Modulo per ripetizione somme

MITTENTE:
_________________ _________________
Via/P.zza _____________________ n. ___
( ______ ) ___________________ - ____ -

Lettera Raccomandata

Spett.le BANCA ____________________________________
DIREZIONE GENERALE

Via / P.zza ____________________________ n. __
( ______ ) ___________________ - ____ -

Lettera semplice

Spett.le ADUSBEF Onlus
Via Farini n. 62
(00185) ROMA


Lettera semplice

Spett.le Vicepresidenza ADUSBEF Onlus (Avv. Tanza)
C.so Porta Luce 20 (73013)
(73013) Galatina (LE)


Oggetto: contratto di mutuo del ___________repertorio n°_______ e raccolta n°_____, per Notaio ______________________ erogato da Banca______________________ : - illegittimità, per violazione dell’art. 1284 c.c., delle somme corrisposte a titolo di interesse ultralegale composto derivanti dalla strutturazione del piano di ammortamento prospettato per discrasia tra il tasso di interesse indicato in contratto e quello effettivamente applicato e ripetizione delle somme superiori all’interesse legale.

Io sottoscritto ___________________________________________, nato a __________________ il ____/____/_____, residente in __________________ alla Via ______________________________ n. ____, con telefono n. ___________________, con posta elettronica ___________________, nella qualità di associato ad ADUSBEF (Associazione Difesa Utenti Servizi Bancari Finanziari Postali Assicurativi), con sede in Roma alla Via Farini n. 62, nella persona del Presidente Dott. Elio LANNUTTI , espongo quanto segue:
1) tra il Vs. Spett.le istituto di credito e il sottoscritto è stato stipulato un contratto di mutuo come indicato in oggetto;
2) il Vs. Istituto ha indicato nel contratto di mutuo un tasso di interesse nominale differente a quello effettivamente praticato nell’allegato piano di ammortamento (cosiddetto “alla francese”) del medesimo contratto, incrementando di fatto ed occultamente il costo del piano di rimborso stesso e determinando l’incertezza del tasso del negozio;
3) Il Tribunale di Bari – Sezione Distaccata di Rutigliano – in persona del dott. Pietro Mastronardi, edita in www.adusbef.it e www.studiotanza.it ha accolto le doglianze di un cittadino rappresentato e difeso dal Vicepresidente di Adusbef, Avv. Antonio Tanza, pronunziando il giorno 29 ottobre 2008 una sentenza che sancisce l’illegittimità di tale comportamento e, in applicazione della sanzione prevista dall’art. 1284 c.c., ha disposto il ricalcalo del dare – avere al tasso di interesse legale semplice. Infatti, la banca che utilizza nel contratto di mutuo questo particolare tipo di capitalizzazione, viola non solo il dettato dell’art. 1283 c.c. (anatocismo) ma anche quello dell’art. 1284 c.c., che in ipotesi di mancata determinazione e specificazione, ovvero di incertezza (tra tasso nominale contrattuale e tasso effettivo del piano di ammortamento allegato al medesimo contratto), impone l’applicazione del tasso legale semplice e non quello ultralegale indeterminato o incerto.

Tutto ciò premesso,

si invita e diffida il Vs. istituto entro giorni 15 dalla ricezione della presente a:
restituire, per le rate scadute e pagate, in caso di discrasia tra il tasso nominale indicato nel contratto ed il tasso effettivamente applicato nello sviluppo del piano di ammortamento, tutte le somme, maggiori al tasso di interesse legale di volta in volta vigente, illegittimamente trattenute a titolo di interesse ultralegale, escludendo qualsiasi forma di capitalizzazione derivante dalla strutturazione del piano ammortamento ed applicando l’interesse legale semplice;
calcolare, per il capitale residuo, il solo interesse legale semplice previsto dall’art. 1284 del Codice Civile.

In caso di silenzio o diniego ci si vedrà costretti ad intraprendere la strada del contenzioso per far valere i propri diritti, previo ricalcalo dell’effettivo dare avere a mezzo di perizia econometria realizzata dai consulenti dell’ADUSBEF.

___________, __/ ___/ 2008
In fede

_____________________







REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dai Signori Magistrati:

Dott. Gaetano NICASTRO PRESIDENTE

Dott. Ernesto LUPO CONSIGLIERE

Dott. Michele LO PIANO CONSIGLIERE Rel.D

Dott. Antonio SEGRETO CONSIGLIERE

Dott. Alfonso AMATUCCI CONSIGLIERE

Ha pronunciato la seguente

SENTENZA

Sul ricorso n. 19884/98 proposto

da

L. Giuseppe, difeso da sé stesso, elettivamente domiciliato in Roma, via …, presso lo studio dell’Avv. …….

Ricorrente

contro

CREDITO ITALIANO S.p.A. successore della Cassa Rurale Artigiana Popolare di Palma di Montechiaro – Società Cooperativa S.r.l. Palmaria.

Intimati

e sul ricorso n. 90/99 proposto

da

UNICREDITO ITALIANO S.p.A., in persona dei suoi legali rappresentanti pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Piazza ……, presso lo studio dell’avv. ……., difesa dall’Avv. ……….., giusta delega in atti.

Controricorso e ricorrente incidentale

Contro

L. Giuseppe

Intimato

avverso la sentenza n. 571/98 della Corte d’Appello di Palermo, emessa il 30 gennaio 1998 e depositata il 6 luglio 1998 (R.G. 765/96);

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 23 ottobre 2002 dal relatore consigliere dott. Michele Lo Piano;

udito il P.M., nella persona del sost. Proc. gen. Dott. Giuseppe Napoletano, che ha concluso per il rigetto di entrambi i ricorsi.

Svolgimento del processo

Con ricorso notificato il 18 giugno 1991 l’avvocato Giuseppe L. propose opposizione all’esecuzione immobiliare promossa nei suoi confronti.

Espose che:

a) aveva stipulato con la Cassa rurale ed artigiana popolare di Palma di Montechiaro tre contratti di mutuo (il primo nel 1976, il secondo nel 1980 e il terzo nel 1982), ciascuno con durata quinquennale nel 1980 e il terzo nel 1982), ciascuno con durata quinquennale e con interessi rispettivamente del 15% per i primi due e del 20% per il terzo, e di avere aperto un conto corrente con affidamento;

b) a garanzia dei suddetti mutui aveva concesso di iscrivere ipoteca sugli immobili di sua proprietà sino a concorrenza rispettivamente di lire 120.000.000 per il secondo mutuo e di lire 900.000.000 per il terzo mutuo;

c) per il terzo mutuo era stata iscritta ipoteca anche su area edificabile e sull’edificio da realizzarvi;

d) era stato interamente estinto il primo rapporto di mutuo ed erano state pagate solo due rate (per un totale di lire 53 milioni) per il mutuo del 1980, mentre nessuna rata era stata versata per il mutuo del 1982, in quanto la costruzione dell’edificio sull’area ipotecata era stata bloccata dalla pubblica amministrazione;

e) nel 1986 e nel 1987 gli erano stati notificati rispettivamente decreto ingiuntivo per scoperto di conto corrente e precetto per le rate insolute dei suddetti mutui, con conseguente pignoramento di tutti gli immobili ipotecati e in entrambi i casi aveva proposto opposizione;

f) realizzato l’edificio summenzionato e stipulati i relativi contratti preliminari di compravendita, al fine di ottenere la cancellazione delle ipoteche sugli appartamenti promessi in vendita o la relativa riduzione di pignoramento, in data 20 maggio 1988 aveva sottoscritto una lettera di adesione alle condizioni prescritte dalla C.R.A.P., consistenti nel riconoscimento di tutte le pendenze debitorie, rinunzia alle opposizioni proposte, accettazione di un tasso d’interesse pari al 25%;

g) in data 29 aprile 1990 l’assemblea della C.R.A.P. aveva deliberato di offrire a tutti i debitori dell’istituto l’eliminazione delle pendenze con un tasso di interesse pari al 5% e successivamente il consiglio di amministrazione aveva deliberato la stessa proposta al tasso di interesse pari al 14%;

h) per tale ragione egli aveva inviato tre lettere al fine di ottenere la concessione delle anzidette agevolazioni e malgrado ciò la C.R.A.P., o direttamente da esso opponente oppure dagli acquirenti dagli appartamenti ipotecati, la complessiva somma di lire 1.425.727.000, ma ciò nonostante gli era stato intimato il pagamento di lire 585.000.000.

Ciò premesso il L. chiese:

- di ordinare la sospensione dell’esecuzione e la cancellazione delle ipoteche e del pignoramento per l’avvenuto pagamento delle somme ricevute a titolo di mutuo;

- di riliquidare le somme dovute e dipendenti del conto corrente n. 273 e dei mutui applicando i saggi di interesse del 5%, 14%, 20,50% sul mutuo di lire 500.000.000 e del 15%, sul mutuo di lire 80.000.0000 esclusi gli interessi di mora ed anatocistici;

- di operare la compensazione dei crediti della Cassa opposta fino a concorrenza dei crediti vantati da esso opponente per spese e prestazioni professionali a far tempo della loro maturazione, tenendo conto delle somme versate da esso ricorrente e dai vari promittenti compratori;

- di ritenere e dichiarare che gli interessi in favore della Cassa opposta dovevano essere applicati nella misura del 5% per effetto della delibera assemblare della cassa del 24/4/1990 e in subordine del 14% e ancora più in subordine del 18% sempre con eslusione degli interessi di mora ed anatocistici;

- di dichiarare l'illiceità delle trattenute dell'1,50% per imposta sostitutiva sulle somme mutuate operate dalla Cassa;

- di condannare la Cassa alle restituzioni delle somme pagate in eccesso qualora esso opponente fosse risultato creditore "previa declaratoria di nullità di quelle condizioni inique contenute nella lettera che la travolgono e l'annullano perchè inficiata di nullità assoluta per illiceità della causa, perchè ispirata a comportamenti sleali coercitivi ed illeciti stante lo stato di bisogno del ricorrente";

- di condannare la Cassa rurale ed artigiana popolare opposta al risarcimento dei danni da liquidarsi in separata sede per la mancata cancellazione delle ipoteche iscritte a fronte dei mutui, il tutto con vittoria di spese e compenso del giudizio.

La Cassa rurale ed artigiana popolare opposta si costituì in giudizio ed eccepì l'inammissibilità e l' infondatezza dell'opposizione, basata sugli stessi motivi di cui alle opposizioni del decreto ingiuntivo e al precetto, oggetto di rinuncia come da lettera del 20 maggio 1988.

Osservò inoltre che il L. aveva sottoscritto la transazione del 20 maggio 1988, perfettamente valida e sottoposta a condizione risolutiva, e che lo stesso L. non aveva rispettato il patto di non effettuare vendite di unità facenti parte dell'edificio costruito in località Costa Aguzzino di Agrigento senza la preventiva autorizzazione della Cassa; patto ritenuto essenziale ed inderogabile, cosicchè la Cassa opposta aveva diritto a richiedere gli interessi convenzionali stabiliti in ordine ai rapporti di mutuo originari.

Negò che fossero state adottate le delibere per proposte transattive a tassi inferiori (del 5 % o del 14%) e che il L. fosse creditore di prestazioni professionali, essendo l'assunto privo di riscontro di prova.

Chiese la condanna del L. al risarcimento dei danni per responsabilità aggravata ai sensi dell' art. 96 c.p.c..

Venne disposta ed eseguita consulenza tecnica di ufficio per quantificare le somme versate dal L. e per il calcolo delle somme dovute secondo i rispettivi assunti delle parti in causa.

Con comparsa conclusionale si costituì, quale successore del C.R.A.P., il Credito Italiano S.p.a..

Con sentenza del 11 luglio 1996 il Tribunale di Agrigento rigettò l'opposizione, dichiarò risolta la transazione sottoscritta il 20 maggio 1988 e condannò il L. al pagamento delle spese, liquidate in complessive lire 12.100.000, di cui lire 3.700.000 per spese, lire 2.300.000 per diritti e lire 6.100.000 per onorari, oltre IVA e contributo previdenziale a favore della Cassa avvocati, se dovuta come per legge.

Il Tribunale ritenne preliminarmente la costituzione in giudizio del Credito Italiano S.p.a., quale successore della C.R.A.P., parte opposta, innanzi tutto perchè non si era verificata nè una fusione nè una incorporazione, ma una cessione di azienda e quindi una successione a titolo particolare, con la conseguenza che il Credito Italiano avrebbe avuto la facoltà di intervenire a tempo debito nel giudizio atteso che il processo proseguiva tra le parti originarie in virtù del disposto all'art. 111 c.p.c., e in secondo luogo perchè l'intervento era stato tardivo.

Nel merito rilevò che la transazione raggiunta con lettera del 20 maggio 1988 non era stata superata da un successivo accordo perchè le delibere alle quali il L. aveva fatto riferimento non contenevano alcun impegno da parte della Cassa rurale ed artigiana popolare opposta e perchè dalla documentazione prodotta risultava che il L. era stato consigliato di avanzare proposte, che però non erano state accettate; che l'opposizione non era inammissibile perchè con l'atto di transazione il L. aveva rinunciato alle azioni legali intraprese in epoca precedente contro la Cassa, ma non ai diritti sottostanti; che la transazione raggiunta non poteva essere considerata affetta da nullità per illiceità della causa perchè era stata liberamente sottoscritta dal L., non era contraria ad alcuna norma imperativa, contenendo semplicemente, da un lato, la rinuncia da parte del L., alle precedenti azioni giudiziarie intraprese e il riconoscimento di un tasso di interesse maggiore sulle pendenze debitorie, come ricalcolate ed accettate dall'appellante, e dall' altro la rinuncia da parte della Cassa ad una parte delle ipoteche accese sugli immoboli del L., il tutto previsto dalle parti su di un piano paritario.

Inoltre osservò in ordine al riconiscimento degli interessi aulla somma dovuta, comprensiva degli interessi già maturati, che la capitalizzazione degli interessi non era contraria all'art. 1283 cod. civ., il quale fissa limiti ben precisi agli interessi anatocistici solo "in mancanza di usi contrari" laddove invece nei rapporti bancari esisteva un uso normativo, che era perfettamente legittimo (Cass. 7571/92).

Ritenne infondata l'eccezione di illegittimità della trattenuta operata dalla C.R.A.P. sulla somma erogata al L. a titolo di ritenuta d'imposta perchè ai sensi dell'art. 23 del D.P.R. n. 300 del 1973, la Cassa nell'erogare i finanziamenti era costretta ad effettuare la trattenuta quale sostituto d'imposta.

Infine, il Tribunale ritenne che la compensazione opposta dal L. per crediti relativi a prestazioni professionali era rimasta priva di riscontro probatorio.

Pertanto rigettò non solo l'opposizione ma anche le connesse domande di risarcimento e cancellazione di ipoteca svolte dall'opponente.

Procedendo poi all'esame della domanda riconvenzionale proposta dalla Cassa, il Tribunale riscontrò che la validità della transazione era stata espressamente sottoposta alla condizione risolutiva che il L. non effettuasse alcuna vendita delle unità facenti parte dell’edificio sito in Agrigento in Viale della Vittoria ipotecato a garanzia del debito contratto, tranne quelle espressamente previste; che dagli atti del giudizio risultava che il L. non aveva rispettato la suddetta pattuizione, cosicchè era sorto il diritto per l’opposta di ottenere la risoluzione della transazione e l’obbligo dell’opponente di corrispondere gli interessi originariamente pattuiti.

Nessuna prova veniva rinvenuta tra gli atti del giudizio a sostegno della domanda di condanna al risarcimento dei danni a carico del L. per responsabilità aggravata.

Avverso la suddetta sentenza il L. propose appello con atto di citazione notificato il 13 settembre 1996 al Credito Italiano S.p.A. e alla società cooperativa “Palmaria” – in persona del suo legale rappresentante dott.Filippo C. – con sede a Palma di Montechiaro, quest’ultima costituita a seguito della trasformazione della C.R.A.P. e del trasferimento dell’azienda al Credito Italiano.

Si costituiscono in giudizio sia il Credito Italiano S.p.A. sia la società cooperativa a responsabilità limitata Palmaria.

Il Credito Italiano non solo resistette al gravame, ma a sua volta propose appello in via incidentale.

La società cooperativa S.r.l. Palmaria invece dedusse che, a seguito della cessione di azienda da parte della C.R.A.P., effettuato con atto del 2 dicembre 1992 e di un preciso impegno contrattuale assunto, la detta Cassa si era trasformata in società creditizia; chiese, pertanto, di essere estromessa dal giudizio, essendosi verificata la cessione a titolo particolare anche dei crediti vantati dalla cassa nei confronti del L..

Alla prima udienza di comparizione, l’avvocato L. dichiarò di non conoscere le firme apposte in calce alla scrittura privata del 2 dicembre 1992 (c.d. contratto ad effetti sospesi intercorso tra la Cassa Rurale e il Credito Italiano); precisò che le firme non riconosciute si riferivano a Cacciatore Giuseppe quale presidente della cassa rurale e le altre due a sedicenti rappresentanti legali del Credito Italiano e che il disconoscimento nasceva dal fatto che le firme non risultavano essere state autenticate da un pubblico ufficiale.

A sua volta l’avvocato C. per il Credito Italiano osservò che l’atto di cessione dell’Azienda tra la Cassa Rurale e il Credito Italiano era avvenuto per atto rogato dal notaio P.Soriani di Milano del 2 dicembre 1992.

L’avvocato L. contestò la circostanza deducendo che si trattava di scrittura privata con firme non autenticate.

Alla successiva udienza del 28 gennaio 1997 l’avvocato C. dichiarò di produrre copia autenticata del contratto di cessione d’azienda bancaria ad effetti sospesi tra la suddetta Cassa rurale e il Credito Italiano del 2 dicembre 1992 nonché copia autenticata della denuncia di avveramento delle condizioni sospensive, registrata in data 8 aprile 1993.

L’avvocato L. dichiarò di opporsi all’estromissione della società cooperativa Palmaria ed eccepì che il documento prodotto relativo alla cessione dell’azienda bancaria no era un atto pubblico né una scrittura privata con firme autenticate.

Venne dato atto da parte del Consigliere istruttore che il documento era una scrittura privata attestata conforme all’originale da un notaio.

All’udienza del 18 febbraio 1997 l’avvocato L. dichiarò di non conoscere le firme apposte in calce alla lettera del 25 marzo 1993 e nella denuncia registrata a Milano l’8 aprile 1993; produsse documenti, tra cui 65 atti di precetto. Eccepì il difetto di legittimazione ad processum e ad causam del Credito Italiano; incidenter tantum chiese di ritenere e dichiarare la nullità della scrittura ad effetti sospesi perché redatta in violazione di norme imperative e perché le condizioni sospensive non si erano verificate entro il 1993.

L’avvocato C. dichiarò di non accettare il contraddittorio su questioni, eccezioni e domande nuove.

Precisate le conclusioni, la causa venne assunta in decisione.

La Corte d’appello di Palermo, con sentenza del 6 luglio 1998, in parziale riforma della sentenza del Tribunale, dichiarò che il credito della C.R.A.P. (ed ora del Credito Italiano) era, alla data del 31 maggio 1994, di lire 1.191.694.000, per effetto della compensazione del credito del L. pari a lire 10.468.000; respinse ogni altra domanda proposta dalle parti, confermando nel resto la sentenza impugnata, e compensò le spese di entrambi i gradi del giudizio di merito.

Per la cassazione della suddetta sentenza ha proposto ricorso L. Giuseppe.

Ha resistito con controricorso ed ha proposto ricorso incidentale la S.p.A. Unicredito Italiano (denominazione assunta dal Credito Italiano S.p.A.).

Nell’udienza del 1 febbraio 2001, questa Corte, rilevato che il ricorso incidentale non era stato notificato alla Banca di credito Cooperativa a responsabilità limitata Palmaria, nonostante la sua veste di dante causa a titolo particolare del diritto controverso, ha disposto che nei confronti della predetta fosse integrato il contraddittorio.

Motivi della decisione

I due ricorsi devono essere riuniti perché proposti contro la stessa sentenza.

Il ricorso incidentale deve essere dichiarato inammissibile non avendo le parti provveduto alla integrazione del contraddittorio disposta da questa Corte, ai sensi dell’art.331 c.p.c., nell’udienza del 1 febbraio 2001.

Nella trattazione dei motivi sarà seguito l’ordine di priorità logica che non coincide con l’ordine di esposizione contenuto nel ricorso.

Con il secondo motivo si denuncia: Violazione dell’art.100 c.p.c. in relazione all’art.360 nn.3 e 5 c.p.c.

Si deduce che la Corte d’appello avrebbe dovuto dichiarare il difetto di rappresentanza processuale del Credito Italiano S.p.A., atteso che il suo procuratore non era legittimato a resistere in appello; infatti al detto procuratore era stato conferito mandato per rappresentare e difendere il Credito Italiano nel giudizio di primo grado, nel quale l’intervento dell’istituto era stato dichiarato inammissibile.

La censura è infondata.

Dall’esame degli atti, consentito in questa sede attesa la natura della censura, risulta che il Credito Italiano intervenne nel giudizio di primo grado conferendo mandato agli avvocati Giorgio C. e Carmelo L. (v. procura speciale con autentica della firma da parte del Notaio Francesco Paolo Polizzano, rep. N. 4448 del 27 maggio 1996).

Ai suddetti avvocati venne espressamente conferito il potere di rappresentanza e difesa nel giudizio di opposizione promosso dal L. nonché il potere di «richiedere prova, proporre reclami, impugnazioni ed opporsi ad esse»; si aggiunge infine l’espressione «il tutto si intenderà per rato e valido senza bisogno di ulteriore conferma».

La suddetta procura autorizzava l’avv. C. a costituirsi per resistere all’appello proposto dal L. contro la sentenza del Tribunale ed proporre appello incidentale contro la stessa sentenza.

Infatti, l’espresso riferimento al potere di proporre impugnazioni e di resistere ad esse manifesta in modo evidente la volontà della parte di conferire mandato al procuratore anche per il giudizio d’appello, con la conseguenza che deve ritenersi immune da critiche la statuizione sul punto della Corte d’appello, che in tal senso ha deciso.

A nulla poi rileva che l’intervento del Credito Italiano fosse stato dichiarato inammissibile nel giudizio di primo grado a causa ella sua tardività, perché tale statuizione nessuna incidenza poteva avere sulla validità e sulla estensione della procura conferita dall’istituto bancario ai suoi difensori.

Con il terzo motivo si denuncia: Violazione dell’art. 100 c.p.c. in relazione all’art. 360,nn. 3 e 5, c.p.c.

Si deduce testualmente: «il Credito Italiano che assume la veste di creditore opposto e appellato conserva tale qualifica se ed in quanto successore legittimo del C.R.A.P., cosa che non ha dimostrato e pertanto manca di legittimazione ad causam».

Con il sesto motivo, connesso al terzo, si denuncia: Violazione dell’art. 100 c.p.c., in relazione all’art. 360 stesso codice.

Si deduce testualmente: «Il ricorrente anche nella veste di terzo è legittimato a sollevare eccezioni e mancanze colte negli atti traslativi intercorsi per scrittura privata tra C.R.A.P. e Credito Italiano il 2 dicembre 1992 e 1993 perché la sua veste di debitore gliene dà diritto e facoltà di essere certo di quanto vergato, senza dire che nel contratto ad effetti sospesi si legge il trasferimento dei crediti è limitato a quelli risultanti al bilancio 1991 della C.R.A.P. nel quale non si legge il trasferimento del credito nei confronti del L. al predetto Credito Italiano».

Le censure non possono trovare accoglimento perché non sono idonee ad incidere, stante anche la loro estrema genericità, sulle puntuali osservazioni svolte in ordine alla legittimità dell’intervento del Credito Italiano da parte della corte d’appello.

Invero, dato atto di tutte le critiche mosse dal L. alla sentenza del primo giudice sul punto in discussione, la Corte d’appello così ha motivato: «…l’eccezione di nullità del contratto di cessione d’azienda è infondata, atteso che il divieto sancito dall’art. 30 del D.P.R. n. 1706 del 1937 (T.U. C.R.A.) riguarda per le casse rurali ed artigiane le fusioni o le incorporazioni c.d. eterogenee, ma non il trasferimento di azienda a favore delle aziende di credito di cui alle lettere a e b della legge bancaria allora vigente (art. 52 legge bancaria R.D. 12.03.1936 n. 375 e succ. modificazioni). Per le altre contestazioni, oltre ad essere incompatibili con la citazione dell’atto di appello nei confronti del Credito Italiano, va osservato che esse attengono al negozio di cessione e non essendo state fatte dall’altro contraente, nella specie la società cooperativa a responsabilità limitata PALMARIA, non sono opponibili dal L. perché, quale debitore ceduto è rimasto estraneo al suddetto negozio e tale rapporto non incide in alcun modo sul suo obbligo di adempiere».

Con il quarto motivo si denunzia testualmente:

« Violazione dell’art. 112 c.p.c. in relazione all’art. 360 n. ri 3-5 stesso codice – per essere la Corte d’Appello andata ultra petita, cumulando sorte capitale ed interessi anatocistici e di mora senza fare il distinguo tra capitale ed interessi tempi di applicazione e somme cui si riferiscono e poiché non richiesti nelle forme rituali.

Tali interessi dovevano essere richiesti in via giudiziale ed in ogni caso farli decorrere dalla domanda giudiziale; nel caso in esame gli interessi moratori ed anatocistici dovrebbero decorrere dalla domanda giudiziale che nel caso che ci occupa non è dato rilevare una domanda in tal senso e gravare sul residuo credito semprechè ancora residuasse a favore della C.R.A.P. con la specificazione della misura, scadenze e i tempi cui si riferiscono.

Nel caso che ci occupa manca addirittura la motivazione del come si è pervenuti alla quantificazione delle somme al 31 maggio 1994».

Con il quinto motivo si denuncia: Violazione dell’art. 1283 c.c. in relazione all’art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c.

Si deduce, sotto un primo profilo, che il giudice d’appello non avrebbe potuto cumulare gli interessi di mora con gli interessi dovuti sulle somme concesse in mutuo, in forza della clausola contrattuale che li prevedeva, poiché gli interessi possono produrre interessi soltanto dalla domanda giudiziale o in base a convenzione posteriore alla loro scadenza.

Si deduce, sotto un secondo profilo, che il giudice di appello ha adottato acriticamente le conclusioni del consulente tecnico per determinare l’ammontare del debito complessivo.

Si deduce, sotto un terzo profilo, la violazione dell’art. 117 del decreto legislativo 1 settembre 1993 n. 385, che sancisce l’espresso divieto di rinvio agli usi per la determinazione dei tassi d’interesse e delle condizioni praticate dalle banche ai clienti.

Con il settimo motivo si denuncia: Violazione dell’art. 360 n. 5 c.p.c. per omessa motivazione su un punto decisivo della controversia in relazione agli artt. 1193, 1194, 1283 e 1184 c.c.

La censura sviluppa il secondo profilo del quinto motivo del ricorso, sopra illustrato.

La censura sviluppata con il quarto motivo è infondata nella parte in cui denuncia la violazione dell’art. 112 c.p.c. perché il cumulo di interessi sugli interessi era stato fatto valere dalla creditrice opposta fin dal primo grado del giudizio.

La questione prospettata con il terzo profilo di censura contenuta nel quinto motivo è nuova; infatti la questione non risulta prospettata nel giudizio di merito.

Con riferimento al primo profilo di censura di cui al quinto motivo si osserva che il giudice d’appello ha respinto l’impugnazione proposta dal L., in base alle seguenti considerazioni: «Per gli interessi di mora va rilevato che dai contratti di mutuo intercorsi tra il L. e la cassa risulta che è stato pattuito un interesse di mora per entrambi i finanziamenti prevedendo espressamente la decorrenza dalla scadenza delle singole rate annuali in conformità al combinato disposto di cui agli artt. 1224, 1219 n. 3 e 1283 c.c., non essendo necessaria una preventiva costituzione in mora da parte della Cassa creditrice. Per il calcolo degli interessi sugli interessi, i c.d. interessi anatocistici va ribadito che nel caso in esame non sono applicabili le limitazioni previste dall’art. 1283 c.c. perché tali limitazioni valgono solo in mancanza di usi contrari, come viene previsto dallo stesso art. 1283 c.c., laddove invece nei rapporti bancari esiste un uso normativo contrario che viene considerato perfettamente legittimo (v. Cass. 7571/92 e 6631/81)”.

I due finanziamenti cui fa riferimento la Corte d’appello riguardano il mutuo di lire 80.000.000 in data 2 maggio 1980 ed il mutuo di lire 500.000.000 del 23 novembre 1982, entrambi concessi dalla C.R.A.P. al L..

Il primo mutuo, rimborsabile in cinque anni, venne concesso al tasso del 15% in ragione d’anno. Venne previsto che il mutuo sarebbe stato rimborsato in cinque rate annuali uguali e costanti, ciascuna di lire 23.865.243, comprensive di sorte ed interessi. Fu, infine, previsto che il ritardato pagamento alla scadenza di ciascuna delle rate avrebbe prodotto un interesse di mora del 21% in ragione d’anno, con decorrenza dalla scadenza.

Il secondo mutuo, anch’esso rimborsabile in cinque anni, venne concesso al tasso del 20,50% in ragione d’anno. Venne previsto che il mutuo sarebbe stato rimborsato in cinque rate annuali uguali e costanti di lire 169.032.785, comprensive di sorte ed interessi. Fu, infine, previsto che il ritardato pagamento alla scadenza di ciascuna delle rate avrebbe prodotto un interesse di mora del 25% in ragione d’anno, con decorrenza dalla scadenza.

Come più sopra ricordato il ricorrente deduce che il giudice d’appello non avrebbe potuto cumulare gli interessi di mora con gli interessi dovuti sulle somme concesse in mutuo, in forza della clausola contrattuale che li prevedeva, poiché gli interessi possono produrre interessi soltanto dalla domanda giudiziale o in base a convenzione posteriore alla loro scadenza.

La censura è fondata.

Occorre, in primo luogo, rilevare che in ipotesi di mutuo per il quale sia previsto un piano di restituzione differito nel tempo, mediante il pagamento di rate costanti comprensive di parte del capitale e degli interessi, questi ultimi conservano la loro natura e non si trasformano invece in capitale da restituire al mutuante, cosicché la convenzione, contestuale alla stipulazione del mutuo, la quale stabilisca che sulle rate scadute decorrono gli interessi sulla intera somma integra un fenomeno anatocistico, vietato dall’art. 1283 c.c..

Il principio è stato affermato da questa Corte a partire dalla sentenza n. 3479 del 1971, la quale osservò che “il semplice fatto che nelle rate di mutuo vengono compresi sia una quota del capitale da estinguere sia gli interessi a scalare non opera un conglobamento nè vale tanto meno a mutare la natura giuridica di questi ultimi, che conservano la loro autonomia anche dal punto di vista contabile”.

Lo stesso principio è stato affermato da Cass. 6 maggio 1977, n. 1724.

L’orientamento è da seguire.

A carico del mutuatario di somme di denaro sono poste due distinte obbligazioni.

La prima è quella di restituire la somma ricevuta in prestito (art. 1813 c.c.).

La seconda è quella di corrispondere gli interessi al mutuante, salvo diversa pattuizione (art. 1815 c.c.).

Sono due obbligazioni distinte ontologicamente e rispondenti a finalità diverse.

Nei mutui c.d. ad ammortamento, la formazione delle varie rate, nella misura composita predeterminata di capitale ed interessi, attiene ad una modalità dell’adempimento delle due obbligazioni; nella rata concorrono, infatti, la graduale restituzione della somma ricevuta in prestito e la corresponsione degli interessi; trattandosi di una pattuizione che ha il solo scopo di scaglionare nel tempo le due distinte obbligazioni del mutuatario, essa non è idonea a mutuarne la natura né ad eliminarne l’autonomia.

Ciò premesso deve ora verificarsi se in materia di mutuo bancario esista un uso contrario che legittimi la decorrenza degli interessi moratori sugli interessi corrispettivi sin dal momento della loro scadenza; il che si risolve nell’accertare la legittimità della clausola, contestuale alla stipulazione del mutuo, la quale stabilisca che sulle rate scadute decorrono gli interessi sulla intera somma, a prescindere quindi dalle condizioni previste dall’art. 1283 c.c.-

Una ricognizione della giurisprudenza sul punto appare necessaria.

Anche in questo caso è opportuno prendere le mosse dalla sentenza n. 3479 del 1971, sopra citata.

La fattispecie esaminata riguardava un mutuo di £ 100.000.000, concesso da un Istituto bancario a dei privati, al tasso dell’8% da estinguersi in trenta rate semestrali di £ 5.783.010, ciascuna comprensiva del capitale e degli interessi a scalare; nel contratto era stato previsto che su tutte le somme dovute e non pagate nei termini contrattuali sarebbero decorsi a carico del mutuatario gli interessi di mora nella misura del 9%.

La Corte d’Appello aveva ritenuto legittima la richiesta della banca mutuante di ottenere il pagamento degli interessi di mora sulle rate scadute e non pagate, così come convenzionalmente pattuito, rilevando che la fattispecie non integrava un’ipotesi di anatocismo, in quanto nei contratti di mutuo, nei quali sia pattuita l’estinzione del debito per capitale ed interessi mediante un piano di ammortamento, gli interessi rimangono fin dall’inizio capitalizzati.

Come si è più sopra ricordato, Cass. N. 3479 del 1971 ha escluso che gli interessi perdessero la loro natura per effetto della inclusione nei ratei di ammortamento ed ha statuito che “salvo eccezioni previste dalla legge o l’esistenza di usi contrari, che deve essere provata dalla parte interessata, anche nel caso di mutui ad ammortamento gli interessi di mora sulle rate di mutuo scadute e non pagate sono dovute soltanto a decorrere dalla domanda giudiziale o per effetto di convenzioni posteriori alla loro scadenza e sempre che siano decorsi almeno sei mesi”.

Analogo principio venne successivamente affermato da Cass. N. 1724 del 1977, più sopra citata.

Abbastanza significativo appare il fatto che le suddette sentenza non si pongono esplicitamente il problema dell’esistenza di usi contrari che consentano di derogare al divieto di cui all’art. 1283 c.c., considerato dalla seconda sentenza <<norma imperativa, che presidia l’interesse pubblico ad impedire una forma, subdola, ma non socialmente meno dannosa delle altre, di usura>> con la conseguenza che <<i patti conclusi in sua trasgressione sono nulli ai sensi dell’art. 1418 c.c.>>. Tuttavia dalla prima delle due sentenze, laddove è affermato che gli usi, con riferimento alla fattispecie esaminata, andavano provati, può indursi che nel caso esaminato tale prova non era stata data né (è da presumersi) offerta o dedotta.

Alle citate sentenze segue la sentenza n. 6631 del 15 dicembre 1981 di questa Corte che, sempre con riferimento ad un contratto di mutuo intercorso tra un istituto di credito ed un privato affermò il principio così massimato: <<gli usi che consentono l’anatocismo, richiamati dall’art. 1283 c.c., sono usi normativi, in quanto operano sullo stesso piano di tale norma (secundum legem) come espressa eccezione al principio generale ivi affermato, onde essi hanno l’identica natura delle regole dettate dal legislatore ed il giudice può applicarli attingendone comunque la conoscenza (iura novit curia), con la conseguenza che anche in sede di legittimità è ammessa una indagine diretta sugli usi in questione e, una volta accertatane l’esistenza, una decisione sulla base dei medesimi, indipendentemente dalle allegazioni delle parti e dalle considerazioni svolte in proposito dal giudice di merito”In Applicazione del suddetto principio- e ricordato”che gli usi sono caratterizzati da un comportamento della generalità degli interessati che vi si adeguano con il convincimento di adempiere ad un precetto di diritto” la Corte ha ritenuto che ”può fondatamente affermarsi che nel campo delle relazioni tra istituti di credito e clienti, in tutte le operazioni di dare e avere , l’anatocismo trova generale applicazione in quanto sia le banche sia i clienti chiedono e riconoscono ( nel vario atteggiarsi dei singoli rapporti attivi e passivi che possono in concreto realizzarsi ) come legittima la pretesa degli interessi da conteggiarsi alla scadenza non solo sull’originario importo della somma versata ma sugli interessi da questa prodotti e ciò anche a prescindere dai requisiti richiesti dall’art. 1283 cc”. Fatta questa premessa la Corte ha ritenuto che non era necessario accertare” un uso con specifico riferimento agli atti di mutuo, in quanto è idonea a legittimare l’anatocismo nei confronti di questi, una consuetudine che riguardi tutti i rapporti di credito, in un determinato campo, dato che la regola generale trova applicazione nei casi particolari ad essa riconducibile” ed ha concluso affermando che” sussiste, dunque, un uso che rende lecito l’anatocismo fra banche e clienti e, pertanto, deve concludersi, in conformità alle decisioni del giudice di merito, per la validità della clausola, contenuta nel mutuo in discussione, che prevede gli interessi moratori dell’8,50 % sulle rate di ammortamento scadute e non pagate”.

Occorre soffermare l’attenzione sulla detta sentenza perché essa costituisce il precedente (solo indirettamente e , peraltro senza dimostrazione alcuna, l’esistenza di un uso era stata ritenuta da Cass.12 aprile 1980, n 2335 (sul quale si sono basate le successive decisioni di questa Corte (fino a Cass. 16 marzo 1999, n. 2374) per affermare l’esistenza generalizzata di usi bancari derogatori della norma di cui all’art. 1238 c.c.

Peraltro, la sola sentenza, successiva a Cassazione n.6631 del 1981, che si è occupata del problema dell’anatocismo nella materia del mutuo bancario è stata la n. 9227 del 1995, che si è limitata a richiamare il precedente senza nulla aggiunger ( Ci si riferisce naturalmente alle sole decisioni in materia di mutui ordinari atteso che nei mutui fondiari l’anatocismo è previsto per legge).

Della sentenza n.6631 del 1981 è da condividere l’affermazione secondo cui gli usi richiamati dall’art.1283 c.c., sono soltanto i c.d. “usi normativi”.

Questo punto non è discutibile ove si consideri che a detti usi è consentito derogare la disciplina dettata dalla citata norma.

Nella fattispecie di cui all’art. 1283 c.c. per l’effetto del richiamo, l’uso acquista forza di legge, così come è venuto a formarsi in seno alla categoria di persone che vi ha dato vita, onde la norma che lo regola attraverso esso la materia che ne costituisce l’oggetto.Del resto, su tale punto la giurisprudenza di questa Corte è concorde e l’affermazione della natura normativa dell’uso richiamato dall’art.1283 c.c. costituisce la premessa sia dell’indirizzo che fa capo alla sentenza n. 6631 del 1981 sia dell’indirizzo innovativo che ha avuto inizio con Cassazione n.2374 del 1999.

Una rimeditazione è necessaria, invece , in ordine agli altri principi che si trovano affermati nella citata sentenza.

Come si è più sopra ricordato, la sentenza n. 6631 del 1981, dopo aver premesso che “può fondatamente affermarsi che nel campo delle relazioni tra istituti di credito e clienti, in tutte le operazioni di dare e avere, l’anatocismo trova generale applicazione in quanto sia le banche sia i clienti chiedono e riconoscono ( nel vario atteggiarsi dei rapporti attivi e passivi che possono in concreto realizzarsi ) come legittima la pretesa degli interessi da conteggiarsi alla scadenza non solo sull’originario importo della somma versata ma sugli interessi da questa prodotti e ciò anche a prescindere da dai requisiti richiesti dall’art. 1283 c.c.” afferma che “non è necessario…che si accorti un uso con specifico riferimenti agli atti di mutuo , in quanto è idonea a legittimare l’anatocismo nei confronti di questi, una consuetudine che riguardi tutti i rapporti di credito, in un determinato campo. Dato che la regola ad generale trova applicazione nei casi particolari ad essa riconducibili”.

L’affermazione di una regola generale tratta dalla constatazione della esistenza di una pratica anatocistica comune “a tutte le operazioni di dare e avere” nel campo bancario, non appare del tutto convincente quando poi si ammette che per almeno una di queste operazioni, e cioè quella di mutuo, tale pratica non è accertata ; tanto che viene respinta la richiesta del ricorrente di accertamento di un uso con specifico riferimento agli atti di mutuo non con l’affermazione che un uso siffatto esista ma con l’affermazione che in ordine a detto uso non sia necessario alcun accertamento stante l’esistenza della regola generale.

Peraltro è ancora da osservare che allorquando l’uso è richiamato dalla legge, nei termini in cui ciò è fatto dall’art.1283 c.c.c questa ne recepisce il contenuto, che viene così ad essere incorporato nella norma scritta, di cui diventa parte integrante; in tale caso il contenuto della norma, nella parte in cui fa riferimento all’uso, è costituito appunto dal contenuto di questo , che viene così sussulto dalla norma negli stessi termini oggettivi e soggettivi in cui si è formato attraverso l’uniforme e costante ripetizione di un determinato comportamento da parte di un certo gruppo di soggetti.

Ciò comporta che l’uso non può estendersi a soggetti diversiva quelli che lo hanno comunemente praticato (limite soggettivo) e non può riguardare atti diversi da quelli in relazione al quale è stato posto in essere.

Così se un uso si è formato in relazione ad un determinato tipo di contratto bancario, non soltanto per ciò può essere esteso ad altri tipi di contratti pur se posti in essere da un istituto bancario.

Così come del resto un uso formatosi in relazione ad uno specifico contratto posto in essere tra determinate categorie di soggetti non può estendersi anche ad altri soggetti ancorché pongano in essere lo stesso tipo di contratto.

Alla luce delle esposte considerazioni non appare sufficiente l’accertamento di un generico uso al quale ricondurre le varie fattispecie contrattuali, peraltro di natura, a volte, completamente diversa, ma è necessario verificare se , con specifico riferimento al contratto di mutuo stipulato tra un istituto di credito ed un privato, esista un uso che deroghi alla disciplina dell’art. 1283 c.c.

Prima di procedere a questa verifica occorre risolvere un problema pregiudiziale, che può essere così formulato. Se gli usi contrari richiamati dall’art.1283 c.c. sono solo quelli preesistenti all’entrata in vigore del codice civile ovvero se sia possibile la formazione di usi contrari successivi.

Sul punto la dottrina è divisa.

I sostenitori della prima tesi ( necessità che gli usi richiamati dall’art.1283 c.c. siano preesistenti alla norma ) basano la loro opinione, fondamentalmente, sulla natura imperativa della norma, la quale non consente comportamenti contra legem e quindi la formazione di nuovi usi in deroga alla disposizione legislativa.

I sostenitori della seconda tesi (ammissibilità della formazione di usi contrari successivi alla entrata in vigore della norma) fondano la loro opinione a)sulla considerazione che la gerarchia delle fonti non riguarda priorità temporali; b)sulla constatazione che l’uso contrario in quanto richiamato dalla norma non è un uso contra legem ma un uso secundum legem, con la conseguenza che esso sarebbe idoneo ad integrare la norma anche se formatosi successivamente ; c) sulla osservazione che gli usi costituirebbero una lex specialis, con la caratteristica di essere idonei a derogare, anche se di rango inferiore , alla legge generale.

La Corte ritiene che debba essere preferita la prima tesi.

Sul piano della teoria generale può convenirsi che le argomentazioni addotte dai sostenitori dell’altra tesi non siano di per sé infondate. Ciò che non può essere, invece, condivisa è l’applicazione che dei principi generali viene fatta alla fattispecie di cui all’art.1283 c.c.

Uno scrutinio delle norme del codice civile, nelle quali è fatto rinvio agli usi contrari, consente di dare sostegno positivo alla tesi che si ritiene corretta.

Rinviano agli usi contrari , attribuendo ad essi funzione integrativa derogatoria della disciplina prevista dalla legge , agli art 1283, 1457, 1510, 1528, 1665, 1739, 1756, 2148 del codice civile.

Sono complessivamente otto articoli

In cinque di queste norme ( artt. 1457 1510 1528 1665 1756) è usata la locuzione “in mancanza di patto o uso contrario” ovvero “salvo patto o uso contrario”.

Nell’art,. 1739 è usata la locuzione “ salvo che gli sia stato diversamente ordinato e salvi gli usi contrari”; nell’art.2148 è usata invece la locuzione “ senza il consenso del concedente o salvo uso contrario”.

Solo nell’art. 1283 è usata la locuzione “in mancanza di usi contrari” senza alcun riferimento a pattuizioni contrarie ovvero a manifestazioni unilaterali di volontà quali “consenso” ovvero “ordine diverso”.

L’unica pattuizione ammessa dall’art.1283 è quella che le parti possono porre in essere in data posteriore alla scadenza degli interessi e sempre che si tratti di interessi dovuti almeno per sei mesi.

Questa constatazione porta ad una prima conclusione: in base agli art. 1283 c.c. l’anatocismo è ammesso nei limiti indicati positivamente nella stessa norma ( interessi dovuti per almeno sei mesi, nonché domanda giudiziale ovvero convenzione posteriore alla loro scadenza); sono fatti salvi usi contrari, non sono ammessi patti anteriori alla scadenza degli interessi.

La salvezza degli usi contrari, contenuta nell’art.1283 c.c. è dovuta alla constatazione del legislatore del 1942 della esistenza nella pratica commerciale di radicati usi che consentivano l’anatocismo ed alla evidente intenzione di non incidere su di essi riconoscendone il valore normativo ancorché fossero contrari alla disciplina positiva che si intendeva dettare.

La mancata previsione della possibilità di porre in essere patti contrari ( se non nei limiti dalla norma stessa indicati) trova invece la sua spiegazione nelle finalità che la norma di cui all’art.1283 c.c. si prefigge.

Come è stato ricordato da Cassazione n.2374 del 1999: “ le finalità della norma sono state identificate, da una parte, nella esigenza di prevenire il pericolo di fenomeni usurai, e , dall’altra, nell’intento di consentire al debitore di rendersi conto del rischio dei maggiori costi che comporta il protrarsi dell’inadempimento (onere della domanda giudiziale) e, comunque, di calcolare, al momento di sottoscrivere l’apposita convenzione, l’esatto ammontare del suo debito. Richiedendo che l’apposita convenzione sia successiva alla scadenza degli interessi, il legislatore mira anche ad evitare che l’accettazione della clausola anatocistica possa essere utilizzata come condizione che il debitore deve necessariamente accettare per poter accedere al credito. Finalità, va anche detto, che lungi dall’apparire anacronistiche, per quanto riguarda gli intenti antiusurai, sono di grandissima attualità, perché la lotta all’usura ha trovato in tempi recenti nuove motivazioni e nuovi impulsi e ha portato all’approvazione della legge 7 marzo 1996, n. 108, che ha radicalmente innovato la disciplina preesistente, rendendo più agevole l’applicazione delle sanzioni penali e civili (con la modifica del secondo comma dell’art. 1815 c.c.), anche con l’introduzione di un meccanismo semplificato di accertamento della natura usuraria degli interessi, consistente nel mero superamento obbiettivo di un tasso-soglia determinato dal Ministero del Tesoro per ogni trimestre. Ora, pur rimanendo nei limiti del tasso-soglia, determinato dal Ministero del Tesoro per ogni trimestre. Ora, pur rimanendo nei limiti del tasso soglia, le conseguenze economiche sono diverse a secondo che sulla somma capitale si applichino gli interessi semplici o quelli composti. E’ stato, infatti, osservato che, una somma di denaro concessa a mutuo al tasso annuo del cinque per cento si raddoppia in venti anni, mentre con la capitalizzazione degli interessi la stessa somma si raddoppia in circa 14 anni”.

L’analisi della genesi e delle finalità dell’art.1283 c.c. ed il raffronto tra il detto articolo e gli articoli del codice civile sopra richiamati danno ragione dell’affermazione che non consente la formazione di usi contrari aventi forza di legge in epoca successiva alla data di entrata in vigore della norma.

La disciplina dell’anatocismo, dopo l’entrata in vigore del codice civile del 1942, è dettata dalle disposizioni contenute nell’art.1283 e dagli usi contrari, presupposti già esistenti dal detto articolo richiamati.

A differenza delle altre norme del codice civile sopra richiamate l’art. 1283 c.c. non prevede la possibilità di patti contrari.

Per comprendere appieno l’importanza che tale differenza comporta occorre avere presente che gli usi contrari, richiamati dalle norme del c.c., si applicano ai rapporti da esse contemplati ancorché ad essi le parti non abbiano fatto riferimento ma solo per il fatto che esistono e sono accertati.

In relazione agli artt. 1457,1510,1528,1665,1739,1756 e 2148 c.c., le eventuali pattuizioni contrarie alla norma o non rispondenti ad usi già esistenti, trovano riconoscimento di legittimità nella stessa norma che le consente.

Con riferimento a queste norme non si può escludere che la reiterazione di identiche pattuizioni, possa portare alla creazione di uso contrario fino allora non esistente; in questo caso la legittimità dell’uso contrario non troverebbe la sua giustificazione nel fatto che la norma fa salvi gli uso contrari, ma nel fatto che le pattuizioni contrarie consentite dalla norma sono idonee, eventualmente a far nascere un nuovo uso che sarebbe in tal caso applicabile anche se non riprodotto in una pattuizione.

Al contrario, in relazione all’art.1283 c.c. una pattuizione relativa all’anatocismo, posta in essere successivamente all’entrata in vigore del codice, che non fosse stata conforme alla disciplina positiva dettata dall’art.1283 ovvero agli usi già esistenti (perché relativa ad un contratto diverso da quello con riferimento al quale l’uso si era formato ovvero relativa a soggetti diversi), sarebbe stata nulla perché contraria al divieto, sia pure limitato, contenuto nella legge.

Detta pattuizione, ancorché ripetuta nel tempo, non sarebbe stata idonea a generare un uso normativo; essa avrebbe portato al più generare una prassi negoziale non idonea, in quanto tale, a modificare la disciplina positiva esistente.

E’, infatti, vero che l’uso contrario, se richiamato dalle norme di legge, non è contra legem ma secundum legem, ma è anche vero che l’uso formatosi contro la legge esistente, in quanto frutto di patti posti in essere contro il divieto in essa contenuto, non può mai divenire secundum legem.

Ciò che si è fin qui detto, in ordine alle pattuizioni vale anche in relazione ai comportamenti, ancorché non tradotti in patti (precisamente questa doverosa, atteso che gli usi nascono anche per la reiterazione nel tempo di un determinato comportamento).

Invero se tali comportamenti (e si fa sempre esclusivo riferimento alla disciplina dell’art. 1283 c.c.) si fossero risolti nella spontanea reciproca accettazione di una disciplina relativa ad un determinato rapporto in nulla si sarebbero distinti dalle pattuizioni se non per il fatto che con il comportamento la volontà veniva solo tacitamente manifestata.

Se tali comportamenti avessero invece costituito frutto di imposizione unilaterale, determinata ad esempio da situazioni di monopolio o da altre situazioni di predominio contrattuale, sarebbe mancato quel consenso minimo necessario per la nascita dell’uso; e ciò esime dall’affrontare il contestato, (in dottrina ), problema della necessità del requisito della opinio juris ac necessitatis per l’esistenza dell’uso normativo.

Deve pertanto affermarsi, con riferimento alla disciplina dell’art. 1283 c.c., che gli usi contrari cui la norma si riferisce sono quelli che esistevano anteriormente all’entrata in vigore del codice civile.

Usi contrari non avrebbero potuto successivamente formarsi perché la natura della norma stessa, di carattere imperativo e quindi impeditivi del riconoscimento di pattuizioni e di comportamenti non conformi alla disciplina positiva esistente, impediva la realizzazione delle condizioni di fatto idonee a produrre la nascita di un uso avente le caratteristiche di un uso normativo.

Né può essere contestata la natura imperativa della norma per il fatto che essa stessa ammette di essere derogata da usi contrari, una volta dimostrato che tale deroga è possibile solo ad opera di usi contrari preesistenti.

A questo punto occorre, allora, verificare se anteriormente al 1942 esistevano o meno usi che nel campo specifico del mutuo bancario ordinario consentissero l’anatocismo oltre i limiti previsti dall’art. 1283 c.c. e, particolarmente, una pattuizione analoga a quella intercorsa tra le parti del presente giudizio.

La risposta è negativa.

La dottrina che subito dopo l’entrata in vigore del codice civile del 1942 si è occupata del commento dell’art. 1283 c.c. ha indicato l’esistenza di usi contrari per il conto corrente e per altri contratti tipici bancari ma non per il mutuo.

Fino al 1976 nelle raccolte degli usi a cura delle camere di commercio l’applicazione degli interessi sugli interessi veniva ammessa con riferimento a specifiche operazioni bancarie; tra i contratti non viene mai menzionato il contratto di mutuo; si menzionano, infatti, solo i rapporti di conto corrente, i depositi a risparmio, i conti vincolati e non vincolati. Del contratto di mutuo solo qualche raccolta si occupa ma solo per certificare che gli interessi relativi a frazione di anno si calcolano computando i giorni secondo l’anno civile e dividendo il numero così ottenuto per il divisore fisso dell’anno commerciale.

Solo la raccolta degli usi di Catania prevedeva che “nel caso del pagamento delle bimestralità, semestralità ed annualità di ammortamento di un debito commerciale avvenga dopo uno o più periodi di tempo, gli interessi di mora che decorrono al tasso consentito sulle somme si capitalizzano a fine di ogni periodo di tempo e si producono quindi alla loro volta nuovi interessi di mora“ ( il che a ben vedere costituisce una diversa forma di anatocismo, questa volta non sugli interessi corrispettivi del mutuo ma sugli interessi di mora dovuti in relazione al ritardato pagamento delle rate di mutuo ).

Soltanto a partire dal 1976 nella raccolta degli usi della provincia di Milano (e, a volte con qualche insignificante variazione, in numerose altre raccolte provinciali, ma non in tutte) viene certificata l’esistenza di un uso concernente gli interessi di mora su rate scadute di mutui e finanziamenti. In particolare l’art.12 della raccolta di Milano indica che “nel caso di mancato pagamento entro il quinto giorno successivo alla scadenza, anche se festivo, di rate di rimborso di mutui e di finanziamenti estinguibili secondo piani di ammortamento, le banche percepiscono interessi di mora sull’intero importo delle rate scadute e non pagate”.

Analoga disposizione si trova poi nel paragrafo 16 degli usi bancari accertati su base nazionale: “nel caso di mancato pagamento, nei termini previsti, di quanto dovuto dal debitore per capitale, interessi ed accessori, le banche percepiscono, su tutte le somme rimaste insolute, gli interessi di mora a decorrere dal giorno di scadenza fino al giorno della valuta del pagamento effettuato”.

Il fatto dell’esistenza dell’uso sia certificata solo trentaquattro anni dopo l’entrata in vigore del codice dimostra con sufficiente certezza che almeno precedentemente al 1942 un uso siffatto non esisteva.

Inoltre, per le ragioni precedentemente esposte, la certificazione dell’uso non può attribuire allo stesso il valore di uso normativo, ma può al più costituire prova di una prassi, volontaria o imposta, contraria alla legge.

E’ il caso di aggiungere che sulla vicenda in esame non incide il d.lgs. 4 agosto 1999, n. 342; infatti, l’art.25, comma terzo, del detto decreto legislativo il quale aveva stabilito la validità ed efficacia delle clausole relative alla produzione degli interessi sugli interessi maturati, contenute nei contratti stipulati anteriormente all’entrata in vigore della delibera del CICR di cui al comma secondo del medesimo articolo, è stata dichiarata costituzionalmente illegittima con sentenza della Corte costituzionale n. 425 del 17 ottobre 2000.

Quanto sin qui detto porta, in accoglimento del primo profilo di censura di cui al quinto motivo del ricorso, alla cassazione della sentenza impugnata in relazione al punto in cui ha affermato che nel caso in esame, in relazione al calcolo degli interessi, non sono applicabili le limitazioni previste dall’art.1283 c.c., per effetto di un uso bancario contrario.

L’accoglimento della censura comporta l’assorbimento del secondo profilo di censura dello stesso motivo e del settimo motivo.

Assorbito è pure il primo motivo del ricorso con il quale si denuncia: Mancata applicazione del disposto dell’art. 1200 c.c. in relazione all’art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c. e si deduce che la Corte d’appello ha omesso di pronunciare in ordine alla richiesta di cancellazione dell’ipoteca nonostante l’avvenuto pagamento delle somme a garanzia delle quali l’ipoteca era stata concessa.

La sentenza impugnata deve essere cassata in relazione alla censura accolta e la causa rinviata ad altra sezione della Corte d’appello di Palermo.

P.Q.M.

La Corte di Cassazione, sezione terza civile, riunisce i ricorsi. Accoglie, per quanto di ragione, il quinto motivo del ricorso principale, con assorbimento del primo e del settimo motivo.

Rigetta gli altri motivi del ricorso principale e dichiara inammissibile il ricorso incidentale. Cassa la sentenza impugnata, in relazione alla censura accolta, e rinvia, anche per le statuizioni in ordine alle spese del processo di cassazione, ad altra sezione della Corte d’appello di Palermo.

Così deciso, nella camera di consiglio della terza sezione civile della Corte di Cassazione, il giorno 23 ottobre 2002.

f.to Il Presidente
f.to Il Consigliere est.

Depositata in cancelleria.

Oggi 20 febbraio 2003


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