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Anatocismo e Usura
COMUNICATO STAMPA
CAPITALIZZAZIONE degli INTERESSI TRIMESTRALI:
la Sentenza n. 425/2000 della Corte Costituzionale SCONFIGGE LE BANCHE
consigli all’utenza
(Vicepresidente ADUSBEF: Avv. Antonio Tanza)
Come era facilmente prevedibile, la norma transitoria di cui all’art. 25, comma 3, D.Lgs. 4 agosto 1999, concepita dal precedente governo al fine di porre rimedio ai “guasti” determinati dal noto revirement della Cassazione in materia di anatocismo nelle operazioni bancarie (Cass. Civ., 16 marzo 1999, n. 2374; Cass. Civ., 30 marzo 1999, n. 3096; Cass. 11 novembre 1999, n. 12507), ha provocato un’autentica valanga di ordinanze di rimessione alla Corte Costituzionale, in un clima che, visti i toni passionali di alcune di esse, non è azzardato definire di insurrezione del potere giudiziario.
La prima ordinanza è stata quella del Tribunale di Lecce del 21 ottobre 1999, emessa dal Dott. Vittorio GAETA nel giudizio promosso da un associato ADUSBEF (Dott. Pietro MIGLIETTA) difeso dal VicePresidente Nazionale ADUSBEF, Avv. Antonio TANZA da Lecce, contro Banca del Salento, ora Banca 121.
La prima ordinanza di Corte d’Appello è stata emessa il 3 febbraio 2000 dalla Corte d’Appello di Lecce (Pres. Dott. Vincenzo FEDELE), nella causa di due associati ADUSBEF (Francesco DE PADOVA e Lucia CAZZOLLA) difesi dallo stesso Avv. TANZA, contro Banca Popolare di Puglia e Basilicata.
Con memoria del 12 giugno 2000, l’avv. Tanza ha sostenuto la difesa dell’associato ADUSBEF (Dott. Miglietta Pietro) contro la Banca del Salento (oggi Banca 121), chiedendo la dichiarazione di incostituzionalità del c.d. “decreto salva banche”.
Il 20 giugno 2000 la Consulta (Relatore il Prof. Dott. Cesare RUPERTO) si riservava di decidere, e dopo quattro mesi ha fatto giustizia su quello che è sembrato sin dall’inizio un abuso.
Lo scenario che si apre è il seguente: ADUSBEF darà corso giudiziario alle centinaia di migliaia di raccomandate inviate nei mesi precedenti alle banche, raccomandate con cui tutti gli utenti che hanno subito la capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi possono recuperare il maltolto.
Sui siti internet ADUSBEF (www.adusbef.it e http://cliomg.clio.it/adusbef) gli utenti potranno trovare una bozza aggiornata della lettera da inviare alle banche, da far seguire, nell’ipotesi di silenzio o diniego, alla instaurazione di un contenzioso civile per la restituzione degli interessi illegittimamente percepiti durante il corso del rapporto.
Illustriamo in breve, qui di seguito, i punti cardine della difesa dei consumatori contro l’anatocismo bancario.
L’anatocismo o interesse composto, cioè il meccanismo della produzione esponenziale infinita degli interessi sugli interessi, è consentito esclusivamente nel caso in cui sia stata presentata specifica domanda giudiziale oppure sia stata stipulata idonea convenzione posteriore di almeno sei mesi alla loro scadenza, così come prevede l’art. 1283 del codice civile.
Solo in queste ipotesi, quindi, gli interessi potranno sommarsi con il capitale costituendo un tutt’uno su cui, a loro volta, possono decorrere altri interessi.
La convenzione anatocistica prevista nei contratti bancari è invece anteriore alla scadenza stessa degli interessi.
Nel momento stesso in cui si stipula un contratto di conto corrente, viene imposta al cliente la clausola che prevede che, ogni tre mesi, gli interessi passivi si cumulino con il capitale, facendo così decorrere, dal primo giorno del trimestre successivo, ulteriori interessi sull’intera somma.
Questo meccanismo, come è facilmente intuibile, determina un aumento esponenziale ed illegittimo dell’esposizione bancaria del cliente.
L’inserzione nei contratti bancari di conto corrente di una previsione di capitalizzazione trimestrale non costituisce, com’è a tutti noto, un uso normativo, ma potrebbe al più costituire un uso negoziale.
La generalità dei clienti delle banche, infatti, è convinta, non certo di osservare una norma giuridica, bensì di sottoscrivere un contratto predisposto dal contraente forte, fitto di clausole vessatorie dannose per il contraente debole che, però, posto dinanzi ad un vero e proprio prendere o lasciare, ha necessità di sottostare al sistema bancario.
Le note sentenze della Corte di Cassazione (n. 2374/1999, n. 3096/99, 12507/99) hanno prodotto l’effetto di rendere nulla la clausola che, nella (quasi) totalità dei contratti bancari di apertura di credito e di conto corrente, permette alla banca di capitalizzare trimestralmente gli interessi.
Il correntista ha diritto al ricalcolo degli interessi passivi corrisposti all’istituto di credito dall’inizio del rapporto ad oggi.
In particolare, la clausola colpita da nullità è la seguente: «I conti che risultino anche saltuariamente debitori vengono regolati invece, in via normale, trimestralmente e cioè a fine marzo, giugno. settembre e dicembre di ogni anno, applicando agli interessi e competenze di chiusura valuta data di regolamento».
In virtù di detta clausola 1.000.000 di lire, al tasso del 10%, si raddoppiano normalmente in dieci anni, mentre con la capitalizzazione trimestrale in circa sette. Ha osservato la Corte di Cassazione che non esiste un uso normativo (cfr art. 8 preleggi del codice civile), anteriore all’entrata in vigore del vigente codice civile, il cui contenuto consenta la pattuizione preventiva della capitalizzazione trimestrale degli interessi non ancora scaduti.
La portata economica e sociale di tali sentenze è incalcolabile ove mai si pensi di voler procedere a ricalcolo di tutte le competenze pagate alle banche con il meccanismo della capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi, eliminando il quale, le posizioni debitorie divengono, in moltissimi casi, creditorie con il diritto quindi degli utenti, non solo a non dover pagare alle banche somme che non sono dovute (perchè frutto di criteri di calcolo illegittimi), ma anche di poter ottenere in restituzione quanto pagato indebitamente in passato.
Una doccia fredda era venuta agli utenti bancari con l’emanazione del frettoloso e atecnico art. 25, D.Lgs 4 agosto 1999, recante modifiche al Tub (testo unico bancario), che così recita: «Le clausole relative alla produzione di interessi maturati contenute nei contratti stipulati anteriormente alla data di entrata in vigore della delibera di cui al comma 2 (delibera del Comitato Interministeriale Credito e Risparmio, pubblicata il 09 febbraio 2000), sono valide ed efficaci fino a tale data e dopo di essa, debbono essere adeguate al disposto della delibera di adeguamento. In difetto di adeguamento, le clausole divengono inefficaci e l’inefficacia piò essere fatta valere solo dal cliente».
Con la deliberazione del 9 febbraio 2000, il CICR ha dato attuazione al nuovo art. 120, comma 2 del Tub, come novellato dall’art. 25, comma 3, D. Lgs. 342/1999, stabilendo le “modalità e criteri per la produzione di interessi sugli interessi scaduti nelle operazioni poste in essere nell’esercizio dell’attività bancaria e finanziaria”.
Anche detta delibera ha sollevato problemi, sia sul piano nuovamente della legittimità costituzionale (questa volta del nuovo comma 2 dell’art. 120), sia su quello della legittimità in sé del provvedimento del CICR.
Se l’obiettivo del legislatore, con la novella del 1999, era quello di chiudere un’epoca di turbolenze in materia di interessi nelle operazioni bancarie, bisogna dire che si sono raggiunti effetti, allo stato, diametralmente opposti.
Corte Costituzionale ha definitivamente posto fine alle vessazioni del potere bancario sui milioni di utenti bancari che hanno subito per anni vessazioni e abusi che hanno portato disperazione nelle famiglie.
Questa vittoria degli utenti bancari va dedicata al povero padre di famiglia che pochi giorni orsono si è tolto la vita per la persecuzione degli usurai.
Ben possono, quindi, i consumatori richiedere la restituzione di tutti gli interessi percepiti dalle banche nell’intero arco in cui si è svolto il rapporto bancario (si decade dal diritto alla restituzione solo a partire dal decimo anno successivo alla chiusura del rapporto, sempre che non sia stata inviata una lettera di interruzione del termine prescrizionale).
Pubblichiamo di seguito le memorie depositate in data 12 giugno 2000 dinanzi alla Corte Costituzionale dall’associato ADUSBEF, Dott. Miglietta Pietro, rappresentato dal Vice Presidente.
Ecc.ma corte costituzionale
Atto di costituzione e deduzioni
nell’interesse di
MIGLIETTA Dott. Pietro, nato a Lecce il 11 ottobre 1950, ivi residente alla Via De Giorgi n. 2/A, elettivamente domiciliato in Roma alla Via Farini n. 62 (c/o ADUSBEF), presso e nello Studio dell’Avv. Antonio TANZA del foro di Lecce, che lo rappresenta e difende giusta procura speciale che si esibisce e deposita in calce al presente atto,
nel giudizio di legittimità costituzionale n. 690/99 R.G.
del comma 3 dell’art. 120 Decreto Legislativo 1 settembre 1993 n. 385, come introdotto dall’art. 25 Decreto Legislativo 4 agosto 1999 n. 342, giusta ordinanza, ai sensi e per gli effetti dell’art. 23 Legge 11 marzo 1953 n. 87, del Tribunale di Lecce – Sezione Civile del 21 ottobre 1999, resa nella Causa Civile n. 462/98 R.G., G.I. Dott. Vittorio GAETA, pendente tra MIGLIETTA Dott. Pietro + 1 (Avv. A. TANZA) contro BANCA DEL SALENTO S.p.A., in persona del legale rappresentante p.t. (Avv. S. SAN MARTINO).
G G G G G
fatto
Con ordinanza depositata in Cancelleria in data 21/10/1999, il Tribunale di Lecce – Sezione Civile, nell’ambito del procedimento di cui alla Causa Civile n. 462/98 R.G., pendente tra MIGLIETTA Dott. Pietro + 1 contro BANCA DEL SALENTO S.p.A., in persona del legale rappresentante p.t., avente ad oggetto l’accertamento, tra l’altro, della invalidità a titolo di nullità, per violazione degli artt. 1283, 1418 e 2697 c.c., della clausola di cui all’art. 7, commi 2 e 3, del contratto di apertura di credito e di conto corrente intrattenuto dal Dott. MIGLIETTA con l’indicato istituto di credito, relativa all’addebito di interessi composti o anatocistici sugli interessi primari (art. 73: “gli interessi dovuti dal correntista … producono a loro volta interessi nella stessa misura”), capitalizzati nei singoli periodi trimestrali di contabilizzazione del rapporto (art. 72: “i conti che risultino, anche saltuariamente, debitori vengono chiusi contabilmente, in via normale, trimestralmente e cioè a fine marzo, giugno, settembre dicembre”), sollevava ex officio questione di legittimità costituzionale, ai sensi e per gli effetti dell’art. 23 Legge 11 marzo 1953 n. 87, del comma 3 dell’art. 120 Decreto Legislativo 1 settembre 1993 n. 385, come introdotto dall’art. 25 Decreto Legislativo 4 agosto 1999 n. 342, in relazione all’art. 76 Costituzione, con particolare riguardo alla previsione di cui al comma 3 del citato art. 120 D.Lgs. 385/93, come introdotto dall’art. 25 D.Lgs. 342/99, nella parte in cui stabilisce che “le clausole relative alla produzione di interessi sugli interessi maturati, contenute nei contratti stipulati anteriormente alla data di entrata in vigore della delibera di cui al comma 2 (delibera del Comitato Interministeriale per il Credito e il Risparmio concernente la determinazione delle modalità per la produzione di interessi sugli interessi maturati nelle operazioni bancarie secondo il criterio direttivo della identità del periodo di conteggio degli interessi sia debitori sia creditori; n.d.A.), sono valide ed efficaci fino a tale data …“.
Con il presente atto si costituisce, per quanto di ragione, il Dott. MIGLIETTA Pietro, da Lecce, nella qualità di attore nella Causa Civile n. 462/98 R.G., pendente presso il Tribunale di Lecce, nel corso della quale è stata sollevata, in quanto non manifestamente infondata e rilevante, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 120 D.Lgs. 385/1993, come introdotto dall’art. 25 D.Lgs. 342/99, introduttiva del presente giudizio.
La dedotta questione di legittimità non solo non è manifestamente infondata, ma meritevole del più ampio accoglimento delle conclusioni ivi formulate, con conseguente declaratoria da codesta Ecc.ma Corte della illegittimità costituzionale delle sopra richiamate disposizioni legislative, nonché di quelle ulteriori ed eventuali disposizioni legislative o aventi forza di legge la cui illegittimità derivi come conseguenza della invocata declaratoria, per i motivi rappresentati nella citata ordinanza di rinvio, che si abbiano ivi per riprodotti e noti, nonché per quelli che vanno di seguito ad illustrarsi.
diritto
- I -
Premessa introduttiva
L'art. 25 del Decreto Legislativo 4 agosto 1999 n. 342 (“Modifiche al decreto legislativo 1 settembre 1993 n. 385, recante il testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia”) modifica, come noto, la rubrica dell'art. 120 del Decreto Legislativo 1 settembre 1993 n. 385 (“Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia”, di seguito t.u.b.), sostituendola con la seguente: "Decorrenza delle valute e modalità di calcolo degli interessi”; inoltre aggiunge al primo comma del suddetto art. 120 t.u.b. il seguente secondo comma: "Il CICR stabilisce modalità e criteri per la produzione di interessi sugli interessi maturati nelle operazioni poste in essere nell'esercizio dell’attività bancaria, prevedendo in ogni caso che nelle operazioni in conto corrente sia assicurata nei confronti della clientela la stessa periodicità nel conteggio degli interessi sia debitori che creditori"; infine il terzo comma dell'art. 25 recita: "Le clausole relative alla produzione di interessi sugli interessi maturati, contenute nei contratti stipulati anteriormente alla data di entrata in vigore della delibera di cui al comma 2, sono valide ed efficaci fino a tale data e, dopo di essa, debbono essere adeguate al disposto della menzionata delibera, che stabilirà altresì le modalità ed i tempi dell'adeguamento. In difetto di adeguamento, le clausole divengono inefficaci e l’inefficacia può essere fatta valere solo dal cliente".
Secondo una interpretazione meramente letterale della riportata disposizione legislativa (non condivisa da questa difesa per le motivazioni che in seguito si riferiranno), le clausole relative alla produzione di interessi su interessi maturati, del tipo di quelle oggetto di contestazione dall’odierno deducente nel giudizio introdotto dinanzi al Tribunale di Lecce e sopra indicato, contenute nei contratti già stipulati alla data di entrata in vigore della delibera CICR, benché ritenute da Corte di Cassazione nulle in diverse decisioni rese nel corso dell’ultimo anno, “sono valide ed efficaci”, e, successivamente, debbono essere adeguate, a pena di inefficacia, ai criteri direttivi di cui alla predetta delibera.
Siffatta interpretazione del precetto legislativo che, sotto il profilo di una pretesa e non ammessa valenza ricognitivo – interpretativa del previgente ordinamento di settore, in fatto autorizza un sostanziale ripescaggio di posizioni sostanziali ormai dalla diffusa contestazione giudiziale di merito e dalla consolidata ed autorevole censura di illegittimità della Suprema Corte, evidenzia un nesso non occasionale tra l’intervento del legislatore delegato ed il recente esito dottrinario e giurisprudenziale del dibattito sul tema della validità della capitalizzazione trimestrali degli interessi debitori anatocistici nelle obbligazioni pecuniarie ed in specie nei rapporti bancari di apertura di credito con affidamento mediante scopertura in conto corrente.
La complessità della materia in esame, in considerazione dei peculiari profili giuridici e politico - legislativi, e la notevole rilevanza degli interessi che vi sono innervati, impone dunque all’odierno deducente di far precedere alla promessa trattazione di alcuni profili di illegittimità costituzionale dell’art. 25 D.Lgs. 3 agosto 1999 n. 342, una breve disamina dei tratti salienti dell’istituto anatocistico e dell’annosa vicenda della sua ricostruzione ed applicazione.
- II -
Anatocismo ed i suoi effetti pratici
Anatocismo designa precisamente il fenomeno della produzione degli interessi sugli interessi oppure interessi composti nell’ambito delle obbligazioni pecuniarie, con riguardo cioè alla possibilità che interessi scaduti per il decorso del termine di esigibilità possano produrre a loro volta interessi, i quali pertanto andranno a computarsi non sulla somma originaria accreditata, ma su un importo comprensivo del capitale e degli interessi che su di esso sono maturati e che ad esso si incorporano (si capitalizzano), indicando la misura attuale della presunta esposizione del debitore.
Ad esempio, quando la banca anticipa al cliente, contro il pagamento degli interessi corrispettivi (ovvero di interessi dovuti quale corrispettivo del godimento che il debitore abbia dalla disponibilità del capitale per un periodo di tempo) nella misura contrattuale del 10% annuo, la somma di lire 10 milioni, il cliente divenuto debitore dei 10 milioni, una volta trascorso il periodo di capitalizzazione degli interessi (l’anno, il semestre, o, come sempre accade, il trimestre), dovrà restituire alla banca, oltre alla somma ed agli interessi corrispettivi maturati – nel caso qui richiamato 10 milioni di capitale e 1 milione di interessi – anche gli ulteriori interessi, appunto denominati anatocistici o composti; essi si sono prodotti non più sulla somma originaria ma sulla maggiore somma di 11 milioni (10 milioni di capitale e 1 milione di interessi prodotti e dunque capitalizzati).
Tale fenomeno porta al seguente risultato: a parità di tasso di interesse corrispettivo, venendo ad aumentare ad ogni scadenza del periodo di capitalizzazione la somma di denaro sulla quale vengono prodotti e calcolati gli interessi, si verificherà un progressivo aumento della misura degli interessi prodotti.
Tornando all’esempio sopra riportato, nel primo periodo di capitalizzazione, al tasso del 10%, 10 milioni hanno prodotto 1 milione di interessi (1.000.000); nel secondo periodo, al tasso del 10%, 11.000.000 produrranno 1 milione e centomila (1.100.000) di interessi; nel terzo periodo, al tasso del 10%, la somma di lire 11.100.000 produrrà 1 milione e centodiecimila (1.110.000) di interessi, e così via in progressione geometrica.
Il risultato, come può facilmente verificarsi, è di notevole rilievo: pur essendo rimasta sempre la stessa la somma per il capitale dovuto (e cioè 10 milioni), il debito pecuniario è progressivamente aumentato in misura ben superiore al 10% per periodo di capitalizzazione e cioè, nei tre periodi gli interessi dovuti non saranno limitati a lire 3.000.000 bensì a lire 3.210.000.
Il meccanismo che è alla base dell’anatocismo comporta l'incremento esponenziale del debito in modo direttamente proporzionale al ritardo con cui questo viene estinto.
La pericolosità sociale del sistema è insita nel fatto che, attraverso la trasformazione degli interessi in capitale produttivo, si verifica l’effetto del rapido e progressivo aumento dei debiti.
Storicamente il fenomeno è stato visto con sfavore dal legislatore, poiché porta ad un aumento sproporzionato della somma da restituire che è difficile quantificare con anticipo al momento della erogazione del credito.
Si comprendono dunque lo storico disfavore per l'anatocismo (che risale a Giustiniano, che aveva vietato in maniera assoluta le usurae usurarum), e le cautele imposte dal Legislatore moderno alla relativa pattuizione.
Il codice civile del 1942, all'art. 1283, ha infatti previsto che gli interessi possano produrre nuovi interessi alle seguenti rigorose condizioni: 1) gli interessi che si vogliono portare a capitale devono essere scaduti da almeno sei mesi (quindi per i primi sei mesi l'anatocismo non opera); 2) deve essere presentata apposita e specifica domanda giudiziale; 3) (in alternativa alla domanda giudiziale) occorre stipulare idonea convenzione successiva alla scadenza degli interessi.
In mancanza della domanda giudiziale o della convenzione posteriore alla scadenza degli interessi, questi ultimi restano infruttiferi.
La norma di cui all'art.1283 c.c. è una norma imperativa (quindi non derogabile dai privati) e la sua violazione produce la nullità di tutte le pattuizioni stipulate anteriormente alla scadenza degli interessi.
La sua ratio è infatti quella di consentire al debitore: a) di sapere esattamente a quanto ammonta il suo debito già all'atto della stipulazione della convenzione anatocistica; b) di rendersi pienamente conto delle reciproche posizioni di debito - credito tra sé ed il mutuante e di decidere in piena libertà se aderire o meno alla pattuizione (libertà che deriva dal fatto che il prestito lo ha già avuto, mentre, se la firma della clausola avviene prima o contestualmente alla concessione del prestito, è evidente che il mutuatario è indotto ad aderire alla convenzione anatocistica perché, in caso contrario, non otterrebbe il prestito; se si tratta di banche, poi, la cosa è aggravata dal fatto che egli non potrebbe ottenere migliori condizioni, cioè l'eliminazione dell'anatocismo, da un altro operatore bancario, in costanza di regime di oligopolio, dominato dalla prassi di ricezione e da parte degli istituti di credito aderenti ad ABI (ovvero, la quasi totalità delle banche italiane) dei moduli contrattuali da questa predisposti: egli, cioè, è costretto à prendre ou à laisser.
è chiaro quindi che la norma è stata posta a tutela del contraente debole, quale espressione di un principio generale che si ravvisa anche in altre singole disposizioni del codice civile (vedi, ad esempio, gli artt. 1341 e 1342, sui contratti conclusi mediante moduli o formulari e sulle clausole vessatorie; l'art.1370, relativo all'interpretatio contra stipulatorem; l'art.1384, sul potere di riduzione equitativa della penale) e che ha ispirato, da ultimo, il legislatore in materia di trasparenza bancaria.
L’art. 1283 c.c. intende imporre coattivamente una tutela per talune situazioni di squilibrio, quale espressione di un principio che sovrasta la volontà dei privati e che presuppone la vigenza di un sistema giuridico che pone al suo centro la persona umana (e non il profitto) e la ricerca dell'equilibrio tra le contrapposte posizioni giuridiche (invero, l'anatocismo porta ad aumentare lo squilibrio inizialmente esistente tra i contraenti).
Anche il legislatore costituente si è posto (sia pure indirettamente) il problema della tutela del contraente debole, riconoscendo al risparmio una funzione essenziale nel sistema sociale ed economico, e stabilendo in linea di principio che "La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito. Favorisce l'accesso del risparmio popolare alla proprietà dell'abitazione, alla proprietà diretta coltivatrice …" (art. 47 Cost., ma vedi anche gli artt.412 e 32 Cost.).
Ora, ognun vede come non si possa parlare di tutela del risparmio con riferimento all'anatocismo, il quale, anzi, da un lato comporta la progressiva erosione della quota di reddito destinata al risparmio, se non anche di quella necessaria ai consumi essenziali e dall'altro non favorisce la conservazione della proprietà dell'abitazione che può essere sottoposta ad esecuzione forzata in caso di mancata restituzione della presunta debitoria.
La norma di cui all’art. 1283 c.c., nonostante i ristretti limiti di applicazione, fa salvi gli usi ad essa contrari, e qui sorge un duplice problema di identificazione di tali usi derogatori, uno di ordine cronologico ed uno di ordine qualitativo, problemi che devono essere risolti tenendo presenti gli effetti pericolosi dell'applicazione dell'anatocismo al di fuori dei limiti di legge e, quindi, con il massimo rigore interpretativo.
Innanzitutto, limiti cronologici dell'uso (anteriorità rispetto al codice civile): una prima forte limitazione alla efficacia degli usi contrastanti con la norma in esame è data, come è stato rilevato dalla Dottrina più attenta, dal fatto che, essendo l'art. 1283 c.c. una norma imperativa, non è possibile che si siano formati usi contrari alla stessa in epoca successiva all'entrata in vigore del codice civile, per cui i soli usi che potrebbero derogarvi sono quelli che già si erano consolidati nel 1942, e all'epoca non si conosceva un uso bancario di capitalizzazione trimestrale degli interessi debitori[1].
Infatti, stante l'imperatività del divieto di anatocismo, le convenzioni successive al codice sono tutte colpite da nullità e l'uso (inteso come ripetizione di comportamenti uguali nel tempo) non avrebbe avuto modo di formarsi, per la giuridica impossibilità che un uso si formi sulla base di atti nulli ed illeciti[2].
In secondo luogo, i limiti qualitativi dell'uso (effettiva normatività dell'uso): un'altra importante limitazione all'efficacia dell'uso che ammette l'anatocismo è costituita dall'intrinseca natura della consuetudine, la quale, per avere forza pari a quella della legge, deve essere caratterizzata dalla opinio iuris seu necessitatis, ovvero dalla convinzione, in chi osserva l'uso, di obbedire ad un imperativo giuridico (in ciò sta la ragione per cui la consuetudine è posta tra le fonti del diritto dall'art. 1 delle disposizioni preliminari al codice civile)
Gli elementi dell'uso sono due: uno di ordine materiale (comune all'uso negoziale) ed uno di ordine psicologico (proprio dell'uso normativo).
L'elemento materiale consiste nel fatto che un determinato comportamento, non previsto da alcuna norma di diritto positivo, venga tenuto dalla generalità (intesa in senso relativo ad una certa area territoriale) dei consociati, con caratteristiche di uniformità (costanza) e di ripetizione nel tempo (durata) (c.d. diuturnitas).
L'elemento psicologico è dato dal convincimento, da parte di chi osserva l'uso, che il suo sia un comportamento giuridicamente doveroso (c.d. opinio iuris seu necessitatis).
E' proprio questo convincimento che rende l'uso effettivamente normativo, rendendolo fonte del diritto nota con il nome di consuetudine.
Viceversa, a differenza degli usi normativi (di cui è fatto richiamo anche nell'art.1374 c.c.), gli usi meramente negoziali (clausole d'uso di cui all'art.1340 c.c. o usi interpretativi di cui all'art.1368 c.c.), pur essendo caratterizzati dalla costante ripetizione nel tempo di comportamenti negoziali, sono sforniti dell'elemento che attribuisce normatività all'uso, cioè della convinzione di obbedire ad una norma giuridica, e vengono inseriti nel contratto automaticamente perché si presumono voluti dalle parti, a prescindere da un richiamo espresso di legge (che invece è indispensabile per gli usi normativi).
La prassi di apporre nei contratti bancari la clausola che prevede l'anatocismo ha tutte le caratteristiche dell'uso negoziale ma non dell'uso normativo, poiché, quando la generalità dei clienti delle Banche chiede ed ottiene un finanziamento sotto qual si voglia forma (mutuo o apertura di credito in conto corrente o anticipazione bancaria e simili), spinta dalla necessità di avere danaro in prestito dal contraente istituzionale (e monopolista), è dubbio che essa sia intimamente convinta di obbedire ad un imperativo giuridico nell'accettare la clausola che prevede l'anatocismo, e non si trovi, invece, nella tipica condizione del contraente debole, cioè di chi è costretto a prendere o lasciare, poiché sa che anche gli altri operatori del settore bancario imporranno le stesse condizioni.
Pertanto, le clausole sull'anatocismo hanno più la valenza di clausole d'uso (meri usi negoziali) imposte ai privati, che non quella di usi normativi, accettati dai medesimi come norme di diritto.
Si tratta, in altre parole, di usi contrattuali imposti al contraente debole in forza della posizione di monopolio che contraddistingue le banche.
Pertanto, tali clausole sono colpite da nullità, per il divieto di cui alla norma imperativa dell'art. 1283 c.c., che ammette soltanto gli usi normativi contrari e non gli usi contrattuali contrari.
Da tempo la Dottrina, anche a riguardo della protezione del contraente debole, si è espressa in senso favorevole al ridimensionamento dell'anatocismo bancario.
Più in generale, il pensiero degli Autori si è mosso in direzione di una maggiore chiarezza ed equilibrio nei rapporti tra le banche ed i loro clienti.
Chiarezza ed equilibrio che non sono certo prerogativa delle clausole che prevedono la capitalizzazione fruttifera degli interessi.
Infatti, da un lato, le clausole di questo tipo spesso non sono di chiara comprensione (si pensi, ad es., all'espressione, frequentemente riprodotta nei regolamenti contrattuali di mutuo, di "tasso rivedibile trimestralmente", che potrebbe essere intesa dal contraente meno smaliziato come "tasso da aggiornare ogni tre mesi", senza alcun riferimento palese all'anatocismo, senza che sia immediatamente percepibile dal mutuatario quale sarà l'importo che egli si troverà a dover versare alla fine del rapporto).
Dall'altro lato, lo squilibrio che esisteva tra i contraenti al momento della stipula del mutuo è destinato ad aumentare per effetto del progressivo impoverimento del debitore (il cui potere contrattuale era già scarso all’inizio del rapporto ed è pari a zero alla fine dello stesso), a favore della banca, senza alcuna giustificazione che non sia quella di sanzionare oltre modo il ritardo nella restituzione del debito, con l'indebito arricchimento della parte creditrice.
Tale squilibrio contrattuale è evidente nel fatto che l'anatocismo trimestrale opera soltanto a favore della banca e non del cliente, i cui interessi attivi maturano a capitale soltanto alla fine dell'anno, tanto più se si considera che, nel rapporto di conto corrente ordinario, la norma di cui all'art.1831 c.c. (che si ritiene applicabile in via analogica al conto corrente bancario in difetto di diversa pattuizione) prevede che la chiusura del conto (ed il conseguente passaggio a capitale degli interessi) vada fatta alla fine di ogni semestre, senza distinzioni in ordine a quale sia il soggetto a credito.
Per questo, l'anatocismo ad esclusivo favore delle banche è stato definito un ingiustificato privilegio per le aziende di credito, che contribuisce inoltre a rendere meno trasparente la cosiddetta forbice fra costo del credito bancario e remunerazione bancaria del risparmio.
Questo privilegio ha il suo fondamento nelle Norme Bancarie Uniformi, le quali hanno finito per imporre l'uso negoziale della capitalizzazione degli interessi, anziché recepire un uso normativo già formato.
Peraltro, la previsione dell'anatocismo nelle Norme Bancarie Uniformi, che sono predisposte dall'ABI, ne conferma la natura di uso negoziale, inserito come clausola nelle condizioni generali di contratto, e non può averlo trasformato in uso normativo, come è stato giustamente notato, sia perché la unilaterale predisposizione di tali clausole esclude che esse possano essere configurate come regole spontaneamente create ed applicate da tutti i contraenti, sia perché il riconoscere carattere di consuetudine alla ripetuta adozione di condizioni generali di contratto significa, in pratica, conferire alle grosse organizzazioni imprenditoriali, nell'ambito della loro attività di contrattazione standardizzata, una vera e propria potestà normativa.
In questo quadro è intervenuta la legislazione sulla trasparenza bancaria (L. 17 febbraio 1992 n. 154; D.Lgs. 1 settembre 1993 n. 385), comunemente collocata nell'ambito delle norme a tutela del contraente debole, con la funzione di garantire la piena preventiva conoscibilità delle clausole contrattuali.
Al proposito, mutatis mutandis, si può richiamare un brano della relazione ministeriale al codice civile del 1865: "L’obbligo imposto al mutuante, che stipula gli interessi, di consegnare la pattuizione in atto scritto, equivale ad un appello alla pubblica opinione ed esercita la più efficace influenza sul pudore del mutuante, il quale non oserebbe sfidare, con cinico coraggio, la pubblica riprovazione che colpisce l'usuriere".
La proposta di legge che ha dato il via alle riforme in materia di trasparenza bancaria, la proposta Minervini del 24 marzo 1986 n. 3617, si prefiggeva non solo lo scopo della trasparenza, ma anche quello dell'effettivo riequilibrio nelle rispettive posizioni delle parti dei contratti bancari, tra l'altro, escludendo l'ammissibilità dell’uso contrario al disposto dell'art.1283 c.c.
Tuttavia, in sede legislativa, mentre è stato positivamente affermato il divieto di rinvio agli usi per la determinazione del tasso di interesse (art.43 l. 17 febbraio 1992 n. 154; artt.1161, 1176 e 1244 D.Lgs.1 settembre 1993 n. 385), è stato invece omesso ogni riferimento all'anatocismo, frustrando così in parte lo scopo della legge.
E' stata realizzata la trasparenza, ma non l'effettivo riequilibrio tra i contraenti, in un mercato, come quello del denaro, caratterizzato dal sostanziale monopolio delle banche.
Ciò nonostante è stato fatto un passo importante per la chiarificazione dei rapporti tra queste ultime ed i privati contraenti, che può preludere ad un parallelo, effettivo, cambiamento anche in materia di anatocismo.
A questo proposito, si osserva che già la dottrina, in base alla previsione della nullità delle clausole che fanno rinvio agli usi per la determinazione del tasso d’interesse in genere, contenuta nella nuova legge sulla trasparenza, considera nullo il rinvio agli usi pure in materia di anatocismo, dato che la norma non distingue tra uso ed uso.
Invero, ciò che è illegittimo, in quanto non consente al debitore di poter scegliere liberamente e consapevolmente, è la pattuizione dell'anatocismo anteriore o contemporanea alla concessione del credito e non quella posteriore, lecita per espressa previsione di legge.
- III -
Il revirement giurisprudenziale del 1999
Le reiterate istanze di trasparenza e di equità che l’utenza bancaria ha proposto negli ultimi anni sul tema della illegittimità della capitalizzazione trimestrale dell’anatocismo sui conti debitori, anche in funzione di interpretazione evolutiva della menzionata legislazione sulla trasparenza bancaria, hanno infine recentemente trovato il pieno riscontro in una serie di pronunzie di Corte di Cassazione, fiorite negli ultimi mesi, che hanno così superato l’originario orientamento della Corte di legittimità che, con affermazione avente il carattere di un assioma tralatizio, senza che fossero vagliate criticamente le ragioni che sottostavano all’avversa istanza di illegittimità, aveva ritenuto che le clausole sull'anatocismo bancario avessero natura di uso normativo e che perciò derogassero legittimamente al divieto di cui all'art. 1283 c.c., compreso il limite dei primi sei mesi stabilito dalla norma, entro il quale gli interessi non dovrebbero comunque produrre altri interessi.
È dunque alla chiara parola di queste recenti pronunzie della Suprema Corte conviene in questa sede far riferimento, condensandosi in esse le ragioni di pieno diritto sulla nota invalidità contrattuale, che i consumatori ed utenti avevano negli ultimi anni propugnato innanzi agli organi di giustizia ed istituzioni politico - parlamentari.
Corte di Cassazione, Sezione I, 16 marzo 1999 n. 2374, ha dunque limpidamente statuito: "è nulla la previsione contenuta nei contratti di conto corrente bancario, avente a oggetto la capitalizzazione trimestrale degli interessi dovuti dal cliente - tanto più nei contratti stipulati dopo l'entrata in vigore dell'art.4 della legge 17 febbraio 1992 n.154 che vieta le clausole contrattuali di rinvio agli usi - giacchè essa si basa su di un mero uso negoziale e non su di una vera e propria norma consuetudinaria e interviene anteriormente alla scadenza degli interessi".
Corte di Cassazione, Sezione III, 30 marzo 1999 n. 3096 e, da ultimo, Corte di Cassazione, Sezione I, 11 novembre 1999 n. 12507, hanno confermato il sopra riportato indirizzo interpretativo.
In sostanza, le sopra citate pronunce hanno affermato l'inesistenza di un uso normativo idoneo a derogare ai limiti di ammissibilità dell'anatocismo previsti dall'art. 1283 c.c., ossia l'ipotesi di interessi dovuti per almeno sei mesi, ovvero la proposizione di una domanda giudiziale (che ne determina anche la decorrenza) o il perfezionamento di una convenzione successiva alla scadenza degli interessi stessi.
Non solo viene affermata recisamente la impossibilità di qualificare l'uso delle banche di praticare ai clienti la capitalizzazione trimestrale degli interessi debitori come uso normativo, ma viene altresì negata con forza l'esistenza di un simile uso normativo anteriormente all'entrata in vigore del codice civile del 1942.
In particolare è stato statuito che: "La capitalizzazione trimestrale degli interessi scaduti a debito del cliente è stata prevista per la prima volta dalle c.d. norme bancarie uniformi in materia di conto corrente di corrispondenza e servizi connessi predisposte dall'ABI con effetto dal 1° gennaio 1952….Non è stata mai accertata, invece, dalla Commissione speciale permanente presso il Ministero dell'industria, ai sensi del D. Lgs. del C.P.S. 27 gennaio 1947, n.152 (modificato con la legge 13 marzo 1950, n.115) l'esistenza di un uso normativo generale di contenuto corrispondente alla clausola di cui si è detto. Tale uso generale è stato oggetto di accertamento e pubblicazioni in raccolte di natura meramente privata. Per quanto riguarda, inoltre, l'accertamento di usi locali da parte di alcune Camere di commercio provinciali, ai sensi del combinato disposto degli artt.34, 39-40 del R.D. 20 settembre 1934, n.2011 e dell'art.2, del D. Lgs. luogoten. 21 settembre 1944, n.315, deve rilevarsi che si tratta di accertamenti avvenuti tutti in epoca successiva al 1952 e ciò esclude che, in concreto, possa essere attribuita alla indicata clausola delle c.d. norme bancarie uniformi in vigore dal 1952 una funzione probatoria di usi locali preesistenti. Peraltro, la presunzione derivante dall'inserimento nelle raccolte delle camere di commercio, di cui all'art.9 delle disp. prel. al c.c. riguarda l'esistenza dell'uso e non anche la natura, normativa o negoziale…".
Riguardo, infine, l'elemento psicologico dell'opinio iuris ac necessitatis che si accompagnerebbe, secondo le banche, al generalizzato inserimento nei concreti regolamenti contrattuali di clausole conformi alle condizioni generali predisposte dall'A.B.I, e che prevedono la capitalizzazione trimestrale degli interessi a debito del cliente, a fronte della capitalizzazione annuale degli interessi a carico della banca, la Corte osserva che: "Dalla comune esperienza…emerge che l'inserimento di tali clausole è acconsentito da parte dei clienti non in quanto ritenute conformi a norme di diritto oggettivo già esistenti o che sarebbe auspicabile che fossero esistenti nell'ordinamento, ma in quanto comprese nei moduli predisposti dagli istituti di credito, in conformità con le direttive dell'associazione di categoria, insuscettibili di negoziazione individuale e la cui sottoscrizione costituisce al tempo stesso presupposto indefettibile per accedere ai servizi bancari. Atteggiamento psicologico ben lontano da quella spontanea adesione a un precetto giuridico in cui, sostanzialmente, consiste l'opinio iuris ac necessitatis, se non altro per l'evidente disparità di trattamento che la clausola stessa introduce tra interessi dovuti dalla banca e interessi dovuti dal cliente"[3].
Il saggio dell'interesse anatocistico, che la banca ha applicato in misura uguale a quella dell'interesse debitore principale, e cioè nella misura c.d. "uso piazza", dovrebbe, inoltre, essere anch'esso applicato nella misura legale, in forza del principio per il quale "Il saggio degli interessi anatocistici, in mancanza di usi contrari ovvero di convenzione scritta posteriore alla loro scadenza, è quello legale (e ciò in combinazione con il disposto di cui all'art.1284 c.c.), qualunque natura abbiano gli interessi primari sui quali si applicano"[4].
Ed ancora: la previsione di anatocismo (indipendentemente dalla circostanza che sia trimestrale o annuale) riguarda solo ed unicamente la fase in cui il conto corrente bancario è aperto e funzionante, perché solo in quella fase, secondo quanto previsto dagli usi, la banca può capitalizzare gli interessi debitori.
Al contrario, una volta che si è verificata la chiusura finale del conto per risoluzione, recesso o altro, viene meno definitivamente il sinallagma contrattuale: all’originario rapporto bancario, caratterizzato dalle più o meno articolate operazioni che a questo si connettono, viene ad essere sostituito un semplice rapporto obbligatorio non più di diritto bancario, bensì di diritto comune, al quale non sono in alcun modo applicabili i principi, del resto eccezionali, previsti in materia di usi relativamente al contratto di conto corrente.
Una volta chiuso il rapporto di conto corrente, infatti, gli interessi che decorrono sulle somme dovute, in seguito alla chiusura del conto, costituiscono un rapporto obbligatorio finalizzato alla restituzione della somma dovuta, al quale, al pari di ogni altro rapporto obbligatorio, non può essere applicata la regola specialissima dell’anatocismo, in quanto quest’ultima fattispecie della produzione degli interessi sugli interessi è applicabile solo al rapporto bancario e al rapporto di conto corrente in particolare[5].
I rilievi svolti escludono, quindi, l'applicabilità dell'anatocismo anche al debito risultante dopo la chiusura del conto corrente.
Ed infine, Corte di Cassazione, Sezione I, sentenza 16 giugno-11 novembre 1999 n. 12507, condividendo e consolidando l’orientamento recentemente espresso dalla stessa Corte nelle citate pronunzie, ha ribadito non esservi alcun dubbio sul fatto che gli usi, richiamati in apertura dall’art. 1283 c.c., debbano avere carattere normativo, visto che ad essi il legislatore ha attribuito l’effetto di derogare alla disciplina contenuta nell’art. 1283 c.c., e che anche le precedenti pronunce della Corte in materia configuravano detti usi come usi normativi.
Tuttavia, per affermare che l’anatocismo, sotto forma di capitalizzazione trimestrale degli interessi dovuti dai clienti alla banca, costituisca applicazione di un uso normativo, non è sufficiente rilevare che esso trova generale applicazione nei rapporti tra istituti di credito e clienti; è necessario altresì che l’uso anatocistico in questione sia sostanziato dalla “…convinzione o consapevolezza di attuare una regola vertente su materia giuridicamente rilevante per la natura delle situazioni da disciplinare. E tale convinzione o consapevolezza non deve essere unilaterale, ma costituire opinione comune dei contraenti in un determinato settore. Nell’ambito dei contratti bancari mancano elementi idonei a ravvisare tale elemento, segnatamente per quanto concerne il modus operandi del cliente dell’istituto di credito, cliente che di regola stipula secondo schemi contrattuali predisposti dalla banca. E il fatto stesso che nei contratti si avverta la necessità d’inserire l’anatocismo sotto forma di capitalizzazione trimestrale degli interessi, lungi dal dimostrare l’esistenza di un uso normativo, dimostra piuttosto il contrario,. Invero gli usi normativi, richiamati espressamente dal citato art. 1283 (art. 8 disp. sulla legge in generale), operano sul medesimo piano di detta norma. Essi hanno la stessa natura delle regole stabilite direttamente dal legislatore, con la conseguenza che sono, al pari delle norme di legge, soggetti al principio iura novit curia, sicché se ne può fare applicazione anche nel giudizio di legittimità ed anche indipendentemente dalle allegazioni delle parti e dalle considerazioni in proposito svolte dai giudici di merito (così Cass., 1° settembre 1995, n. 9227, in motivazione). Pertanto, non sarebbe necessario fare oggetto di specifica previsione contrattuale la capitalizzazione trimestrale degli interessi, se essa trovasse radice in un uso normativo; al più potrebbe bastare il richiamo all’uso come fonte di diritto. Tale previsione, invece, si comprende appunto perché, in assenza di una regola giuridica, si è reputato necessario trovare una base pattizia. Ma, alla stregua delle considerazioni esposte, la relativa clausola deve essere ritenuta nulla, perché, trascurando le limitazioni fissate dall’art. 1283 c.c., viene a porsi in contrasto con tale norma imponendo una capitalizzazione trimestrale anteriore alla scadenza degli interessi, senza la copertura di un uso normativo…”.
- IV -
L’art. 25 D. Lgs. 4 agosto 1999 n. 342: sua illegittimità costituzionale
Alla auspicata ed invocata esigenza di razionalizzazione del regime negoziale dei rapporti di erogazione del credito, scandita per altri profili dalla c.d. legislazione della trasparenza nonché, come detto, dalle note sentenze della Cassazione sulla illegittimità della capitalizzazione trimestrale dell’interesse composto, il ceto bancario, lungi dal manifestare il segno della conversione verso un esercizio della propria funzione di intermediazione del credito secondo canoni di correttezza e trasparenza, ha a breve giro risposto con un’ardita operazione politico – legislativa, di cui è difficile non intravedere il segno marcato della protezione di interessi patrimoniali e finanziari dell’oligopolio incentrato intorno ad ABI.
Non diversamente può invero valutarsi la emanazione del D.Lgs. 4 agosto 1999 n. 342 (pubblicato in Gazzetta Ufficiale 04.10.1999 n. 233, ed entrato in vigore il 19.10.1999), recante “Modifiche al decreto legislativo 1 settembre 1993 n. 385, recante il testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia”, il cui art. 253 disciplina le modalità di calcolo degli interessi, prevedendo, come detto, secondo una, si ripete, non condivisa interpretazione letterale, la validità ed efficacia delle clausole relative alla produzione di interessi sugli interessi maturati contenute nei contratti stipulati anteriormente alla data di entrata in vigore della delibera del Comitato Interministeriale per il Credito ed il Risparmio (CICR), destinata, secondo il disposto dell’art. 252, a disciplinare modalità e criteri per la produzione di interessi sugli interessi maturati nelle operazioni poste in essere nell'esercizio dell’attività bancaria, prevedendo in ogni caso che nelle operazioni in conto corrente sia assicurata nei confronti della clientela la stessa periodicità nel conteggio degli interessi sia debitori che creditori.
La legislazione delegata sopra richiamata, al di là dai gravi rilievi che possono essere mossi all’Esecutivo per aver prodotto una normativa che, lungi dal porre una rigorosa soluzione al problema scaturito da illegittime ed abusive prassi negoziali imposte dal soggetto bancario e censurate dalla Giurisprudenza di merito (secondo uno schema non dissimile da quello prospettato dal legislatore del 1992-1993 in tema di determinazione dell’interesse ultralegale corrispettivo nelle operazioni bancarie), ne ha piuttosto definito i presupposti di legittimazione, rivela tuttavia ad un più attento esame evidenti profili di illegittimità alla stregua del quadro di principi espresso dall’ordinamento costituzionale vigente.
1) Illegittimità costituzionale, in relazione all’art. 76 Cost., dell’art. 25, terzo comma, D.Lgs. 342/99, per carenza assoluta di legge delega
La Legge 23 agosto 1988 n. 400 disciplina al Capo III la potestà normativa del Governo; l’art. 14 si occupa dell’emanazione dei decreti legislativi, ed in particolare il primo comma prescrive: “I decreti legislativi adottati dal Governo ai sensi dell’art. 76 della Costituzione sono emanati dal Presidente della Repubblica con la denominazione di decreto legislativo e con l’indicazione, nel preambolo, della legge di delegazione, della deliberazione del Consiglio dei Ministri e degli altri adempimenti del procedimento prescritti dalla legge di delegazione”.
Il preambolo del D.Lgs. 4 agosto 1999 n. 342 contiene l’indicazione delle seguenti fonti normative: a) l’art. 25 Legge 18 febbraio 1992 n. 142 concernente l’attuazione della direttiva n. 89/464/CEE del Consiglio del 15/12/1989; b) l’art. 15 della legge 24 aprile 1998 n. 128, recante disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità Europee; c) il D.Lgs. 1 settembre 1993 n. 385, recante il testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia; d) il D.Lgs. 24 febbraio 1998 n. 58, recante il testo unico in materia di intermediazione finanziaria.
Di tali fonti di produzione, solo le prime due (l’art. 25 della legge 18 febbraio 1992 n. 142 e l’art. 15 della legge 24/04/1998 n. 128) possono contenere la legge delega posta a base del D. Lgs. n. 342/1999: le altre due (il D. Lgs. 1 settembre 1993 n. 385, recante il testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia; il D. Lgs. 24 febbraio 1998 n. 58, recante il testo unico in materia di intermediazione finanziaria), infatti, essendo decreti legislativi, non contengono a loro volta leggi di delegazione; esse sono state richiamate nella premessa in quanto integrano il quadro normativo vigente nella materia degli enti creditizi, al quale vengono apportate modifiche ed integrazioni per mezzo del decreto legislativo in esame.
L'art. 25 della legge 18/02/1992 n. 142, concernente l’attuazione della direttiva n. 89/464/CEE del Consiglio del 15.12.19889, è intitolato “Accesso all’attività degli enti creditizi ed esercizio della medesima: criteri direttivi” e recita testualmente:
“L’attuazione della direttiva del Consiglio 89/646/CEE deve avvenire in conformità dei seguenti principi:
a) l’attività di raccolta fra il pubblico di depositi o altri fondi rimborsabili per l’esercizio del credito è riservata agli enti creditizi; restano ferme la disciplina del codice civile sulla raccolta delle società di capitali nonché le discipline speciali sulla raccolta degli enti pubblici e di particolari categorie di imprese;
b) gli enti creditizi restano soggetti per le attività esercitate in Italia sulla vigilanza dell’Autorità dello Stato membro della Comunità economica europea che ha dato l’autorizzazione, purché ivi si trovi la sede statutaria e l’amministrazione centrale dell'ente;
c) gli enti possono prestare in Italia i servizi di cui all'allegato alla direttiva del Consiglio 89/646/CEE direttamente o per il tramite di succursali o filiazioni alle condizioni di cui alla direttiva stessa, sempre che tali attività siano state autorizzate sulla base di requisiti oggettivi;
d) gli enti possono procedere alla pubblicità relativamente ai servizi offerti, alle condizioni previste per le medesime attività dalla disciplina italiana e restano ferme le disposizioni tributarie vigenti per l’accertamento delle imposte dovute dai residenti ed ogni altra disposizione sanzionatoria e penale concernente l’attività creditizia e finanziaria;
e) dovrà essere adottata ogni altra disposizione necessaria per adeguare alla direttiva del Consiglio 89/646/CEE la disciplina vigente per gli enti creditizi autorizzati in Italia.
2. Il Governo, su proposta del Ministro del tesoro e sentito il parere delle competenti Commissioni permanenti della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica, da esprimersi entro quarantacinque giorni, è delegato ad emanare, entro diciotto mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, un testo unico delle disposizioni adottate ai sensi del comma 1, coordinato con le altre disposizioni vigenti nella stessa materia, apportandovi le modifiche necessarie a tal fine. Restano comunque ferme le disposizioni contenute nella legge 10 ottobre 1990, n. 287 (23), e nella legge 2 gennaio 1991, n. 1 (24).
3. In quanto compatibili, si applicano le altre disposizioni contenute nel titolo V della legge 10 ottobre 1990, n. 287 (23), ivi comprese quelle relative alla sussistenza del controllo, agli obblighi relativi alle autorizzazioni e comunicazioni, alla sospensione del voto, all'obbligo di alienazione, alle sanzioni penali e ai confitti di interesse”.
Ebbene, dalla semplice e piana lettura di tale disposizione è dato evincersi che nessuna delle disposizioni ivi riportate contiene deleghe o criteri direttivi che possano riferirsi, sia pure in forma indiretta, alla materia dei singoli contratti o servizi bancari, ovvero alle “modalità di calcolo degli interessi” secondo la dizione della rubrica del novellato art. 120 t.u.b. -
Infatti i criteri delega dettati alle lettere a), b), c), d), del primo comma dell’art. 25 legge 142/1992 riguardano tutt’altre materie: la lettera a) conferma la riserva a favore degli enti creditizi dell’attività di raccolta di depositi o fondi; la lettera b) disciplina l’attività di vigilanza sull’attività esercitata in Italia da banche estere; la lettera c) sancisce l’ammissibilità della prestazione di servizi in Italia da parte di succursali di banche estere; la lettera d) disciplina infine la pubblicità dei servizi interni da parte degli enti creditizi autorizzati.
Né una delega nel senso sopra indicato può rinvenirsi da quanto previsto nella lettera e) del primo comma dell’art. 25 legge 142/1992, ove si rimette al Governo l’adozione di “ogni altra disposizione necessaria per adeguare alla direttiva del Consiglio 89/646/CEE la disciplina vigente per gli enti creditizi autorizzati in Italia”.
La direttiva comunitaria in questione (n. 89/646/CEE del Consiglio, datata 15/12/1989, relativa al coordinamento delle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative riguardanti l’accesso all’attività degli enti creditizi ed il suo esercizio e recante modifiche alla direttiva 77/780/CEE) si apre con un’ampia premessa programmatica delle finalità ivi perseguite, ed in particolare si afferma la necessità di realizzare il mercato interno, come deciso con l’Atto Unico Europeo e programmato nel c.d. Libro Bianco della Commissione CEE, sotto il duplice profilo della libertà di stabilimento e della libera prestazione dei servizi nel settore degli enti creditizi, attraverso una progressiva armonizzazione fra i singoli ordinamenti ed attraverso la creazione di un sistema di vigilanza prudenziale che consenta il rilascio di un’unica autorizzazione valida per tutta la Comunità e l’attuazione della vigilanza da parte del solo Stato membro d’origine.
Già in premessa, dunque, risulta evidente, nella direttiva di che trattasi, la mancanza di qualsivoglia principio che possa in qualche modo ricondursi alla disciplina dei singoli contratti bancari e , più in particolare, alle “modalità di calcolo degli interessi” secondo la nota dizione della rubrica del novellato art. 120 t.u.b. -.
Siffatto rilievo trova pieno riscontro nel contenuto dei singoli articoli della direttiva: art. 1 (definizione di ente creditizio), art. 2 (applicabilità della direttiva a tutti gli enti creditizi), art. 3 (divieto per soggetti diversi dalle imprese creditizie di svolgere attività di raccolta di depositi o di altri fondi), art. 4 (capitale minimo di 5 milioni di ECU per l’autorizzazione allo svolgimento di attività di impresa creditizia), art. 5 (trasparenza e obbligo di comunicazioni sull’identità di persone fisiche o giuridiche che detengano partecipazioni qualificate nell’ente creditizio), art. 6 (eliminazione dell’autorizzazione di cui all’art. 4 della direttiva 77/780/ CEE per le succursali di enti creditizi già autorizzati in altri stati), art. 7 (consultazioni preventive ai fini del rilascio di autorizzazioni fra le autorità degli Stati membri in caso di filiazioni di enti creditizi o di controlli fra enti), art. 8 (casi in cui le autorità competenti degli Stati devono informare la Commissione) art. 9 (informazioni alla Commissione in caso di difficoltà di carattere generale incontrate da propri enti creditizi nello stabilimento o nell’esercizio dell’attività in un paese terzo), art. 10 (conservazione dell’integrità del capitale iniziale dell’ente creditizio), art. 11(obbligo di informazione all’autorità circa la detenzione da parte di persone fisiche o giuridiche di quote qualificate di partecipazione nel capitale dell’ente creditizio), art. 12 (divieto per gli enti creditizi di detenere partecipazioni in altre imprese non creditizie nella misura superiore al 15% dei propri fondi), art. 13 (vigilanza prudenziale esercitata sull’ente creditizio dall’autorità dello Stato d’origine), art. 14 (integrazione dell’art. 7 della direttiva 77/780 ed altre disposizioni in tema di vigilanza su liquidità, solvibilità, depositi e contabilità degli enti creditizi), art. 15 (vigilanza di cui all’art. 14 anche sulle succursali) art. 16 (rispetto del segreto d’ufficio), art. 17 (previsione di sanzioni per gli enti creditizi che non ottemperino agli obblighi in materia di controllo o di regolamentazione dell’attività) ed infine gli artt. 18, 19, 20 (disposizioni relative alla libertà di stabilimento degli enti creditizi e delle succursali).
In conclusione, l’art. 25 legge 142/1992 non contiene alcuna delega per la emanazione di decreti legislativi sulla disciplina dei singoli contratti bancari e, più in particolare, sulla “modalità di calcolo degli interessi”, secondo la nota dizione della rubrica del novellato art. 120 t.u.b. –
Si consideri ora la seconda legge delega indicata nel preambolo del decreto legislativo in esame, e cioè l’art. 15 della legge 24 aprile 1998 n. 128, recante disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità Europee.
II predetto art. 1 è intitolato "Delega al Governo per l'attuazione di direttive comunitarie" e recita testualmente: "1. I1 Governo è delegato ad emanare, entro il termine di un anno dalla data di entrata in vigore della presente legge, i decreti legislativi recanti le norme occorrenti per dare attuazione alle direttive comprese nell'elenco di cui all'allegato A; la scadenza è prorogata di sei mesi se, per effetto di direttive notificate nel corso dell'anno di delega, la disciplina risultante da direttive comprese nell'elenco è modificata senza che siano introdotte nuove norme di principio.
2. I decreti legislativi sono adottati, nel rispetto dell'articolo 14 della legge 23 agosto 1988, n. 400 (2), su proposta del Presidente del Consiglio dei ministri o del Ministro competente per il coordinamento delle politiche comunitarie e dei Ministri con competenza istituzionale nella Materia, di concerto con i Ministri degli affari esteri, di grazia e giustizia, del tesoro, del bilancio e della programmazione economica e con gli altri Ministri interessati in relazione all'oggetto della direttiva, se non proponenti.
3. Gli schemi dei decreti legislativi recanti attuazione delle direttive comprese nell'elenco di cui all’allegato B, a seguito di deliberazione preliminare del Consiglio dei ministri, sono trasmessi, entro d termine di cui al comma 1, alla Camera dei deputati e al Senato della Repubblica perché su di essi sia espresso, entro quaranta giorni dalla data di trasmissione, il parere delle Commissioni competenti per materia; decorso tale termine, i decreti sono emanati anche in mancanza di detto parere. Qualora il termine previsto per il parere delle Commissioni scada nei trenta giorni che precedono la scadenza dei termini previsti al comma 1 o successivamente, questi ultimi sono prorogati di. novanta giorni.
4. Entro due anni dalla data di entrata in vigore della presente legge, nel rispetto dei principi e criteri direttivi da essa fissati, il Governo può emanare, con la procedura indicata nei commi 2 e 3, disposizioni integrative e correttive dei decreti legislativi emanati ai sensi del comma 1 del presente articolo e ai sensi dell'articolo 17.
5. Il Governo è delegato ad emanare, entro il termine di cui al comma.1, e con le modalità di cui ai commi 2 e 3, disposizioni integrative e correttive del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385 (3), e successive modificazioni, nel rispetto dei principi e criteri direttivi e con l’osservanza della procedura indicati nell'articolo 25 della legge 19 febbraio 1992, n. 142 (4).
6. Il Governo è delegato ad emanare, entro il termine di cui al comma 1, disposizioni integrative e correttive del decreto legislativo 14 agosto 1996, n. 494 (5), di recepimento della direttiva 92/57/CEE del Consiglio, nel rispetto dei principi e criteri direttivi e con l’osservanza delle procedure indicate dalla legge 22 febbraio 1994, n. 146 (6), e dalla legge 6 febbraio 1996, n. 52 (7). Nell'esercizio della delega il Governo dispone l’applicazione delle norme di cui all'articolo 10 del citato decreto legislativo n. 494 del 1996 (5) a laureati con adeguata competenza tecnica o documentabile esperienza curriculare e professionale nel settore della sicurezza.
7. Il Governo è delegato ad emanare, entro il termine di cui al comma 1 e con le modalità di cui ai commi 2 e 3, le disposizioni integrative e correttive necessarie ad adeguare la disciplina recata dal decreto legislativo 26 novembre 1992, n. 470, alle direttive del Consiglio 90/364/CEE, 90/365/CEE e 93/96/CEE, nel rispetto dei principi e criteri direttivi di cui all'articolo 6, comma 1, lettere a), b), c) e d), della legge 19 febbraio 1992, n. 142 (4).
8. Il Governo è delegato ad emanare, secondo i criteri e i principi direttivi di cui all'articolo 2, entro il termine di cui al comma I e con le modalità di cui ai commi 2 e 3 del presente articolo, le disposizioni integrative e correttive necessarie ad adeguare la disciplina recata dal decreto legislativo 10 settembre 1991, n. 303, alla direttiva 86/653/CEE del Consiglio, relativa al coordinamento dei diritti degli Stati membri concernenti gli agenti commerciali indipendenti.
9. Entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, con le modalità di cui ai commi 2 e 3, informandosi ai criteri e ai principi generali di cui all'articolo 2, è data attuazione:
a) alla direttiva 93/118/CE del Consiglio, che modifica la direttiva 85/73/CEE del Consiglio, relativa al finanziamento delle ispezioni e dei controlli sanitari delle carni fresche e delle carni di volatili da cortile, informandosi anche ai criteri specifici previsti all'articolo 35 della legge 6 febbraio 1996, n. 52 (7/a), e tenendo conto delle direttive del Consiglio 94/64/CE, 95/24/CE, 96/17/CE e 96/43/CE, di modifica della citata direttiva 85/73/CEE;
b) alla direttiva 93/119/CE del Consiglio, relativa alla protezione degli animali durante la macellazione o abbattimento, informandosi anche ai criteri specifici previsti all'articolo 37 della legge 6 febbraio 1996, n. 52 (7/a);
c) alla direttiva 95/29/CE del Consiglio sulla protezione degli animali durante il trasporto e alla direttiva 97/2/CE del Consiglio sulle norme minime per la protezione dei vitelli, tenendo conto della decisione della Commissione 97/182/CE".
Il primo comma dell'art. 1, che delega il Governo ad emanare i decreti legislativi recanti le norme di attuazione alle direttive comprese nell'apposito elenco di cui all'allegato A è strettamente correlato con il quinto comma (quello richiamato nella premessa del Decreto Legislativo 342/99), in quanto quest’ultimo (con più specifico riferimento alla materia degli enti creditizi) delega il Governo ad emanare, con decreto legislativo, le norme che (proprio al fine di dare attuazione alle Direttive Comunitarie di cui all'Allegato A richiamato nel primo comma) dovranno integrare e modificare il decreto legislativo 1.9.93 n. 385.
Infine, il quinto comma dispone che il Governo dovrà tali disposizioni emanare nel rispetto dei principi e criteri direttivi indicati nell’art. 25 della legge 19.2.1992 n. 142.
I punti di riferimento che consentono di individuare l'oggetto ed i limiti della delega legislativa in esame sono dunque: a) il contenuto delle direttive Comunitarie di cui all'Allegato A richiamato nel primo comma dell'art. 1 L. 128/98, b) i principi e criteri direttivi dettati dall'art 25 L. 142/92.
In base a tali fonti, si deve accertare se il Governo sia stato delegato ad emanare disposizioni sulla disciplina dei singoli contratti bancari e sulle "modalità di calcolo degli interessi”.
Come già innanzi dimostrato, i principi e criteri direttivi dettati dall'art. 25 L. 142/92 riguardano materie del tutto diverse da quella relativa ai singoli contratti o servizi bancari ed alle "modalità di calcolo degli interessi".
Inoltre, di tutte le Direttive Comunitarie elencate nel predetto Allegato A l'unica relativa agli enti creditizi è la Direttiva 95/26 CE, del Parlamento Europeo e del Consiglio, datata 29.6.95, che modifica le direttive 77/789 CEE ed 89/646 CEE (quest’ultima già innanzi esaminata articolo per articolo).
Anche in questo caso pertanto è necessario procedere all'esame dettagliato delle due Direttive Comunitarie nn. 95/26 CE e 77/789 CEE, al fine di verificare se le stesse contengano disposizioni o principi aventi ad oggetto la disciplina dei singoli contratti bancari e, più in particolare, la "modalità di calcolo degli interessi”: solo in tale ipotesi infatti l’art. 1 L. 24.04.1998 n. 128 conferirebbe al Governo la delega a legiferare in detta materia.
E' opportuno iniziare dall'esame della Direttiva n. 77/780 CEE, costituendo questa il testo base in cui si inserisce l’altra Direttiva, la n. 95/26/CE, di cui introduce alcune parziali modifiche.
La Direttiva 77/780 CEE del Consiglio, del 12.12.1977, relativa al coordinamento delle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative riguardanti l'accesso all’attività degli enti creditizi ed il suo esercizio, analogamente alla già esaminata Direttiva 89/646 CEE, contiene un'ampia premessa enunciativa delle finalità di carattere generale; in particolare è affermata la necessità di eliminare le discriminazioni fra gli Stati membri, in materia di stabilimento e di prestazione di servizi, fondate sulle nazionalità o sul fatto, che l'impresa non è stabilita nello Stato membro in cui la prestazione è eseguita; si auspica di raggiungere tale obbiettivo attraverso una progressiva armonizzazione fra i singoli ordinamenti, che contempli sia sistemi di controllo sugli enti creditizi integrati fra i singoli Stati membri, sia condizioni uniformi di autorizzazioni per categorie simili di enti creditizi, sia semplificazione nelle autorizzazioni stesse ed esenzione dalle procedure nazionali di autorizzazione per la creazione di succursali negli altri Stati membri.
Come è facile notare, anche in questo caso la premessa delle Direttiva non contiene alcun principio che possa in qualche modo, sia pure indirettamente, ricondursi alla disciplina dei singoli contratti bancari e, più in particolare, alla "modalità di calcolo degli interessi", ed anche in tale caso ciò trova pieno riscontro nel contenuto dei singoli articoli della Direttiva: art. 1 (definizione di "ente creditizio"), art. 2 (applicabilità della direttiva a tutti gli enti creditizi), art. 3 (necessità di un'autorizzazione preventiva per l’esercizio dell'attività creditizia), art.4 (possibilità di subordinare a particolari autorizzazioni l’apertura di succursali), art. 5 (identità della denominazione dell'ente creditizio nel territorio dello Stato membro in cui ha sede e fuori di questo), art. 6 (controlli sulla liquidità e solvibilità degli enti), art. 7 (collaborazione fra gli Stati membri per i controlli sulle succursali degli enti), art. 8 (casi in cui le autorità competenti degli Stati revocano le autorizzazioni agli enti), art. 9 (divieto di discriminazioni in favore di succursali di enti estranei alla Comunità), art. 10 (enti già autorizzati prima dell'attuazione della direttiva), art. 11 (istituzione di un Comitato consultivo delle autorità competenti degli Stati membri), art. 12 (segreto d'ufficio), art. 13 (ricorsi giurisdizionali), art. 14 (disposizione transitoria).
Infine la Direttiva 95/26/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio, contenente modifiche alle Direttive 77/780 CEE e 89/646 CEE in materia di enti creditizi, nella premessa rileva l'opportunità di modificare in alcuni punti le precedenti Direttive 77/780 CEE e 89/646 CEE in materia di enti creditizi; inoltre enuncia i seguenti obbiettivi: rafforzare la vigilanza prudenziale, con particolare considerazione dell'opportunità di non accordare autorizzazioni ad imprese finanziarie caratterizzate da stretti legami con persone fisiche o giuridiche tali da ostacolare l’effettivo esercizio della vigilanza; meglio controllare fenomeni di elusione dei controlli da parte di imprese che a tale fine scelgono il sistema giuridico di uno stato membro diverso da quello in cui di fatto svolgono le loro attività; facilitare gli scambi di informazioni fra le autorità di controllo degli Stati; intensificare la tutela del segreto professionale.
Come le enunciazioni riportate nella premessa, così anche le singole disposizioni della Direttiva in questione non contengono alcuna norma o principio riconducibile alla disciplina dei singoli contratti bancari o alla “Modalità di calcolo degli interessi”: art. 1 (sostituzione del termine “impresa creditizia" con quello "ente creditizio" a modifica della. Direttiva 77/780), art. 2 (definizione degli "stretti legami" fra ente creditizio ed altra persona fisica o giuridica), art. 3 (parziale modifica di altra Direttiva comunitaria relativa alle imprese di assicurazione), art. 4 (scambi di informazioni fra autorità di controllo), art. 5 (obblighi di segnalazioni alle autorità di controllo), art. 6 (obbligo per gli Stati membri di conformare gli ordinamenti interni alla Direttiva).
Non può infine omettersi di rilevare che, quand'anche (per mera ipotesi) l'art. 25 della L. 19.2.1992 n.142 o l'art. 1 della L. 24.4.1998 n. 128 avessero contenuto la delega legittimante 1'emanazione della disposizione sulla modalità di calcolo degli interessi di cui all'art. 25 del Decreto Legislativo 342/99, in ogni caso il Governo avrebbe esercitato tale delega ben oltre i limiti di tempo imposti dal secondo comma dello art. 25 L. 142/92 ("entro diciotto mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge") e dal primo comma (richiamato dal quinto comma) dell'art. 1 L. 128/98 (“entro il termine di un anno dall'entrata in vigore della presente legge ... la scadenza è prorogata di sei mesi se, per effetto di direttive notificate nel corso dell'anno di delega, la disciplina risultante da direttive comprese nell'elenco è modificata senza che s o introdotte nuove norme di principio").
A tale ultimo riguardo è opportuno precisare che la legge 128/98 è stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 07.05.1998 n. 104 S.O. ed entrata in vigore il 22.05.1998; da ciò consegue che il termine ultimo di un anno per l’emanazione di decreti legislativi è scaduto il 22.5.1999, onde il decreto legislativo n. 342 del 4.8.1999, essendo tardivo, è invalido ed inefficace; né d'altra parte risulta che, nel corso dell'anno di delega, sia pervenuta la notifica di direttive comunitarie modificative di quelle incluse nell’apposito elenco e pertanto non si è verificata la proroga di sei mesi della scadenza.
La carenza assoluta di legge di delegazione rende geneticamente incostituzionale la norma in esame. Tuttavia, subordinatamente, non sembra superfluo evidenziare altri profili di illegittimità costituzionale che attengono al contenuto della norma stessa.
2) Illegittimità costituzionale, in relazione agli artt. 3. 24, 101, 102, 104 Cost., dell’art. 25, comma terzo, D.Lgs. 342/99 come norma interpretativa, per violazione dei limiti costituzionali al potere del legislatore di emanare disposizioni interpretative
1. Non va peraltro trascurato che dall’analisi sistematica della disposizione in esame nel quadro dell’ordinamento costituzionale vigente emergano seri motivi di illegittimità costituzionale dell’art. 25, comma terzo, D.Lgs. 342/99, per contrasto con gli artt. 3, 24, 101, 102, 104 Cost., sotto il profilo della violazione dei limiti costituzionali al potere del legislatore di emanare disposizioni interpretative.
La disposizione contenuta nel comma terzo del citato art. 25 ("Le clausole relative alla produzione di interessi sugli interessi, contenute nei contratti stipulati anteriormente alla data di entrata in vigore della delibera di cui al comma due sono valide ed efficaci fino a tale data, dopo di essa devono essere adeguate al disposto della menzionata delibera …”), infatti, o integra una norma interpretativa dell'art. 1283 c.c. sull'anatocismo, ovvero introduce, con efficacia retroattiva, una modifica dello stesso art. 1283 c.c. in tema di anatocismo limitatamente ai contratti bancari.
Una prima considerazione di ordine logico e sistematico dovrebbe indurre immediatamente ad escludere che la disposizione in esame abbia il carattere proprio della norma interpretativa in senso stretto: infatti, se il legislatore delegato avesse inteso dare un’interpretazione autentica dell'art. 1283 c.c., avrebbe dovuto occuparsi complessivamente della disciplina dell'anatocismo, quale fonte di obbligazione riferibile a qualsiasi tipo di negozio giuridico, ciò in quanto nella sistematica del codice l’istituto dell'anatocismo è collocato fra le obbligazioni in generale (più specificamente le obbligazioni pecuniarie) e di conseguenza riguarda tutti i contratti dai quali derivino obbligazioni pecuniarie.
La norma in esame invece fa esclusivo riferimento al ristretto ambito dei contratti bancari, come è facilmente desumibile dal secondo comma dello stesso art. 25, che tratta solo degli "interessi maturati nelle operazioni poste in essere nell'esercizio dell'attività bancaria".
L'interpretazione autentica non può restringere l’ambito di efficacia della disposizione oggetto di interpretazione; né può introdurre discipline differenziate, per fattispecie particolari (l'anatocismo nei soli contratti bancari ai sensi dell'art. 25 in esame) che rientrano nell'ambito della disciplina previgente insieme ad altre fattispecie in un contesto sistematico più generale (l'anatocismo in tutte le obbligazioni pecuniarie e dunque in tutti i contratti ai sensi dell'art. 1283 c.c.).
In base a tali considerazioni sembra che l’art. 25 D. Lgs. 342/99 vada ben oltre i limiti entro i quali deve mantenersi la norma interpretativa: tale convincimento è rafforzato anche per altre ragioni, alla luce di taluni principi più volte enunciati dalla Corte Costituzionale in tema di norme interpretative. Come affermato da Corte Cost. 12 luglio 1995 n. 311[6] e con le numerose altre in questa richiamate "la legge di interpretazione autentica deve rispondere alla funzione che le è propria: quella di chiarire il senso di norme preesistenti, ovvero di imporre una delle possibili varianti di senso compatibili col tenore letterale sia al fine di eliminare eventuali incertezze interpretative (sentenze nn. 163 del 1991 e 413 del 1988), sia per rimediare ad interpretazioni giurisprudenziali divergenti con la linea di politica del diritto perseguita dal legislatore (sentenze nn. 397 e 6 del 1994; 424 e 402 del 1993; 455 e 454 del 1992 ed altre)".
Dunque, una norma è interpretativa quando: a) chiarisce il senso di norme preesistenti, b) ovvero impone una delle possibili varianti di senso compatibili col tenore letterale, c) ovvero elimina eventuali incertezze interpretative o rimedia ad interpretazioni giurisprudenziali divergenti.
Tali tre possibili ipotesi confluiscono in un ulteriore limite codificato dalla più recente giurisprudenza costituzionale: "Il carattere interpretativo deve desumersi … dalla struttura della fattispecie normativa, in relazione cioè ad un rapporto fra norme tale che il sopravvenire della norma interpretante non fa venire meno la norma interpretata, ma l'una e l’altra si saldano fra loro, dando luogo ad un precetto normativo unitario"[7].
Avendo riguardo a tali principi, se si pongono in relazione il terzo comma dell'art. 25 D.Lgs. 342/99 e l’art. 1283 c.c., non è possibile evincere alcun collegamento fra le due norme tale da consentire di stabilire: a) quale sia il contenuto oscuro dell'art. 1283 c.c. il cui senso trovi definitivo chiarimento nel terzo comma del predetto art. 25, b) quali siano la possibili varianti di senso compatibili col tenore letterale dell'art. 1283 c.c. e quale di tali varianti sia stata scelta ed imposta dalla norma interpretativa, c) infine quali siano le incertezze interpretative risolte.
Ed infatti la disposizione in esame si limita ad un'apodittica affermazione di validità ed efficacia delle clausole sull'anatocismo contenute nei contratti bancari stipulati prima dell'entrata in vigore della futura delibera, con cui il CICR fisserà le modalità ed i criteri per la produzione degli interessi sugli interessi.
Essa dunque non contiene alcuna norma che possa saldarsi sul piano interpretativo con l’art. 1283 c.c. per dare luogo ad un precetto normativo unitario, nel senso già chiarito dalla Corte Costituzionale; esprime invece un giudizio che sembra diretto a dirimere (sia pure senza motivazione) contenziosi già pendenti o eventuali piuttosto che a fornire strumenti ermeneutici utili all'interpretazione di leggi preesistenti.
2. La norma in esame non si sottrae peraltro a ulteriori precise censure sotto il profilo della violazione dei principi di ragionevolezza e di uguaglianza (art. 3 Cost).
Ed infatti, non può negarsi che la natura solo apparentemente interpretativa di una legge spesso nasconde la violazione di norme costituzionali; a tale riguardo la già citata Corte Cost. 12 luglio 1995 n. 311 ha affermato che “La sovrana volontà del legislatore nell'emanare delle leggi (di interpretazione autentica) incontra una serie di limiti, che questa Corte ha da tempo individuato, e che attengono alla salvaguardia, oltre che di norme costituzionali, di fondamentali valori di civiltà giuridica posti a tutela dei destinatari della norma e dello stesso ordinamento, tra i quali vanno ricompresi il rispetto del principio generale di ragionevolezza che ridonda nel divieto di introdurre ingiustificate disparita di trattamento (sentenze nn. 397 e 6 del 1994; 424 e 283 del 1993; 440 del 1992 e 429 del 1993); la tutela dell'affidamento legittimamente sorto nei soggetti quale principio connaturato allo Stato di diritto (sentenze nn. 397 e 6 del 1994; 429 del 1993; 822 del 1988), e il rispetto delle funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario”.
Il principio di ragionevolezza, contenuto nell'art. 3 della Costituzione, quale principio di uguaglianza che si traduce in un “generale canone di coerenza dell'ordinamento” (Corte Cost. 30 novembre 1982 n. 204[8]) è violato, secondo il costante insegnamento della Corte Costituzionale, tutte le volte che una norma generale ritenuta valida sia ingiustificatamente derogata da una disciplina particolare (Corte Cost. 10 marzo 1983 n. 46[9]).
Nel caso in esame la norma generale è dettata dal combinato disposto degli artt. 1283 c.c. e 25 commi primo e secondo del D.Lgs, 342/99: dall'interpretazione sistematica di dette norme si evince che in nessun caso è legittima la capitalizzazione trimestrale degli interessi a favore delle banche fino ad oggi praticata; ed infatti, in base all'art. 1283 c.c. l'anatocismo, fatti salvi gli usi contrari, è ammesso solo a determinate condizioni, cioè a decorrere dalla domanda giudiziale o per effetto di convenzione posteriore alla scadenza e comunque per interessi dovuti da almeno sei mesi, sicché, in mancanza di usi contrari, l'anatocismo si riduce a ben poca cosa, in quanto inizia a decorrere solo dal momento in cui il creditore intraprende l'azione giudiziaria contro il debitore, oppure per volontà del debitore manifestata in seguito alla scadenza degli interessi base.
E' evidente che la ratio di tale disposizione risiede nell'interesse collettivo alla tutela del debitore da facili esposizioni alla levitazione dei tassi in conseguenza della sua posizione di contraente debole.
Per altro verso, in base all'art. 25 comma secondo D.Lgs 342/99, l'anatocismo nei contratti bancari che saranno stipulati in futuro, potrebbe aversi solo in base al ripristino di una situazione contrattuale di equilibrio fra clienti e banche, ossia a condizione che le medesime modalità di calcolo degli interessi composti siano fissate sia per gli interessi creditori che per quelli debitori delle banche.
Da tale quadro normativo di riferimento si evince che il legislatore per il passato (in forza del precetto contenuto nell'art. 1283 c.c.) e per il futuro (in forza della novella di cui all'art. 25 secondo comma) ha inteso sempre tutelare il contraente più debole (il debitore in generale con l’art. 1283; ed il cliente delle banche con l’art. 25 secondo comma), ponendolo al riparo dalle facili pressioni alle quali può essere assoggettato in forza della necessità che talora lo costringe a fare ricorso al credito in misura crescente e progressiva.
Dunque la medesima ratio ispiratrice congiunge le due disposizioni, facendone una norma generale, posta a tutela del contraente più debole e comunque del risparmiatore (ai sensi dell'art. 47 Cost.).
Ne consegue che, attribuendo per absurdum alla disposizione del terzo comma dell’art. 25 una valenza meramente ricognitiva di una precedente sanzione legislativa, e conferendo pertanto ad essa una efficacia retroattiva, non può non osservarsi che, in stridente ed illogico contrasto con la individuata norma generale, si pone il terzo comma del predetto art. 25, in quanto integra una norma speciale che ingiustificatamente deroga alla ratio ed alla disciplina della norma generale, laddove dispone che per il passato, ossia per i contratti stipulati sotto la vigenza dell'art. 1283 c.c., le clausole relative all'anatocismo restino “valide ed efficaci”: ciò non ha alcun logico fondamento, in contrasto con il generale canone di coerenza interna all'ordinamento, e crea una manifesta ed ingiusta discriminazione in danno di coloro i quali, sotto la vigenza dell'art. 1283 c.c., avevano pattuito con le banche interessi anatocistici ed oggi si vedono improvvisamente privati della tutela di una norma che era vigente per tutta la durata del rapporto fin dal momento della pattuizione dell'anatocismo, e che li poneva al riparo dall'illegittimità di tale clausola per i casi in cui le stessa fosse stata applicata al di fuori dei limiti e delle condizioni previste nello stesso art. 1283 c.c.-
Inoltre, la manifesta ingiustizia e disparità di trattamento sopra descritta si configurerebbe anche in danno degli altri operatori economici, i quali, a differenza delle banche, alle quali soltanto si riferisce la novella dell'art. 25, non beneficiano dell'affermazione di validità ed efficacia dei contratti (ad esempio di conto corrente ordinario) eventualmente stipulati con previsione di interessi anatocistici.
3. D’altra parte, l'apparente natura interpretativa della disposizione in esame maschera un'altra violazione costituzionale, questa assai più grave, in quanto mina il fondamento stesso dello Stato di diritto: si tratta della violazione di funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario (artt. 24, 101, 102, 104 Cost.).
A tale riguardo la Corte Costituzionale, con riferimento alle leggi interpretative, ha affermato che "il legislatore vulnera le funzioni giurisdizionali a) quando intervenga per annullare gli effetti del giudicato; b) quando la legge sia intenzionalmente diretta ad incidere su concrete fattispecie sub iudice" (Corte Cost. nn. 397/94, 6/94, 429/93, 424/93, 283/93, 39/93, 440/92, 429/91 ed altre).
Si tratta allora di stabilire se la statuizione contenuta nel terzo comma dell'art. 25 (Le clausole relative alla produzione di interessi sugli interessi, contenute nei contratti stipulati anteriormente a ... sono valide ed efficaci) integri un precetto normativo, come tale caratterizzato da generalità ed astrattezza, ovvero sia diretto ad incidere su concrete fattispecie sub iudice.
E' principio generale che la norma, per potere essere astratta, ossia riferibile a situazioni tipo individuate ipoteticamente (c.d. fattispecie astratta), deve contenere un precetto, cioè una regola di comportamento, riferibile ad una molteplicità indeterminata di situazioni concrete, nelle quali la violazione del precetto dà luogo agli eventuali effetti sanzionatori.
È allora da chiedersi se sia astratta la norma che si limita solo ad escludere una data conseguenza sanzionatoria (invalidità o inefficacia) con riferimento a situazioni particolari (i contratti bancari).
La disposizione in esame ha per oggetto i contratti bancari: è principio generale dell'ordinamento che l’invalidità o l'inefficacia del negozio giuridico scaturisce dalla violazione di specifici precetti, in forza dei quali l'ordinamento, pur riconoscendo l’autonomia privata come principio generale, impone dei limiti entro cui le manifestazioni di volontà negoziale hanno valore ed effetti giuridicamente rilevanti.
L'invalidità o l'inefficacia del contratto pertanto è conseguenza sanzionatoria della violazione di tali limiti dettati da norme generali ed astratte (norme sulla nullità, annullabilità, rescindibilità, risolvibilità dei contratti).
Al di fuori di tali ipotesi astratte, tutti i contratti sono validi ed efficaci in forza dell'art. 1322 c.c. ("Le parti possono liberamente determinare il contenuto del contratto nei limiti imposti dalla legge").
Da ciò consegue che la disposizione che apoditticamente afferma "sono validi ed efficaci le clausole relative alla produzione di interessi sugli interessi, contenute nei contratti stipulati anteriormente a …” non introduce nell'ordinamento alcuna modifica dei limiti all'autonomia privata che possa astrattamente riferirsi ad una molteplicità indeterminata di situazioni concrete, ma afferma soltanto l’esclusione dell'invalidità e dell'inefficacia quali conseguenze sanzionatorie previste, queste si in via generale ed astratta, dall'art. 1283 c.c.-
In conclusione, l’art. 25 terzo comma D.Lgs. 342/99, non contenendo alcun precetto dotato di generalità ed astrattezza ed affermando la validità e l’efficacia delle clausole sulla capitalizzazione trimestrale contenute in tutti i contratti stipulati in passato dalle banche, svolge una funzione prettamente giurisdizionale, in quanto si sostituisce all'Autorità Giudiziaria nel dirimere il contenzioso in atto fra banche e clienti che verte proprio sulla validità delle clausole contrattuali relative all'anatocismo.
In tal modo è stato privato il cittadino della possibilità di tutelare i propri diritti ed interessi legittimi dinanzi all'Autorità Giurisdizionale (art. 24 Cost.); è stata violata la riserva della funzione giurisdizionale in favore del magistrati ordinari istituiti e regolati dalle norme sul regolamento giudiziario (art. 102 Cost.); è stata violata l'indipendenza e l'autonomia della magistratura (art. 104 Cost.) sia in conseguenza del contrasto con la riserva di cui innanzi, sia per avere un altro potere dello Stato imposto ai giudici la soluzione di singoli casi giudiziari.
4. Non può tacersi inoltre che la norma delegata operi una sostanziale e, per certi versi, radicale modificazione della previgente disciplina codicistica (art. 1283 c.c.) in tema di capitalizzazione periodica degli interessi composti, modifica assolutamente non prevista dalla legge delega, e ciò in palese violazione dell’art. 76 Cost.-.
L’art. 2, lett. b) della legge delega, nell’indicare i criteri e principi direttivi generali cui devono attenersi gli emanandi decreti legislativi, prescrive tra l’altro che: “Per evitare disarmonie con le discipline vigenti per i singoli settori interessati dalla normativa da attuare, saranno introdotte le occorrenti modifiche o integrazioni alle discipline stesse”.
Nell’ambito delle discipline vigenti per i singoli settori interessati dalla normativa da attuare rientra, come è evidente, non solo la normativa speciale del t.u.b., ma anche e soprattutto la richiamata disposizione del codice civile, che, come del resto evidenziato dalle note sentenze della Corte di Cassazione, costituisce la disciplina di riferimento nella regolamentazione della capitalizzazione periodica degli interessi composti nelle obbligazioni pecuniarie.
Il portato precettivo sortito da tale maquillage normativo integra precisamente quella disarmonia ordinamentale che la citata disposizione mira programmaticamente ad escludere.
Non può non rilevarsi che il nuovo art. 120 t.u.b. configura una struttura dell'anatocismo nelle obbligazioni pecuniarie affatto diversa da quella prefigurata dal vecchio art. 1283 c.c.: una diversità attinente da un lato l'essenziale aspetto della definizione del termine di capitalizzazione (semestrale per l'art. 1283 c.c., a motivo della insussistenza di una preesistente consuetudine di capitalizzazione per trimestre e per interpretazione estensiva della prescrizione di non debenza dell'interesse composto prima della scadenza semestrale; giornaliero in via di astratta ipotesi con il novellato art. 120 t.u.b., purché sia assicurato il requisito della corrispondenza del periodo di conteggio degli interessi sia debitori che creditori) e dall'altro la individuazione dei presupposti di esigibilità di tale accessorio (domanda giudiziale o convenzione posteriore alla scadenza secondo l'art. 1283 c.c.; osservanza delle prescrizioni regolamentari stabilite dal CICR per il 120 T.u.b.).
Una tale discrasia precettiva tra le norme in esame appare difficilmente componibile con gli ordinari strumenti esegetici a meno di non voler optare per una sorta di interpretatio abrogans della norma codicistica per specialità o posteriorità della novellata norma del t.u.b.: un risultato interpretativo anomalo ed eccentrico, attesa la particolare valenza imperativa dell'art. 1283 c.c., che imporrebbe piuttosto una esplicita deroga di tale disposizione, e vieppiù inaccettabile con riferimento al caso in esame, attesa la generazione della norma posteriore non da legge ordinaria ma da mera legge delegata, prodotta in patente violazione del criterio direttivo - programmatico offerto dalla legge delega, impegnante l'Esecutivo ad una normazione meramente correttivo - integrativa della disciplina settoriale del credito (art. 2 lett. b) l. 128/1998).
3) Illegittimità costituzionale, in relazione agli artt. art. 76, 3, 24, 101, 102, 104 Cost., dell’art. 25, comma terzo, D.Lgs. 342/99 come disposizione innovativa avente efficacia retroattiva
1. Le sopra riportate considerazioni consentono peraltro di acclarare un’ulteriore ipotesi di contrasto dell’art. 25, comma terzo, D.Lgs. 342/99, con gli art. 76, 3, 24, 101, 102, 104 Cost.-
Può da un lato osservarsi infatti che, ove si escluda che la disposizione in esame possa avere natura interpretativa e si ritenga che la stessa integri una norma innovativa avente efficacia retroattiva, deve essere rilevato il contrasto con l'art. 76 Cost. per difetto di espressa delega a conferire efficacia retroattiva alla disposizione delegata.
A tale riguardo Corte Costituzionale sent. n. 29/64 ha affermato che "Anche nel fissare la data di decorrenza della disciplina delegata il Governo deve osservare i principi ed i criteri direttivi della legge delegante in conformità all'art. 76 Cost. Di conseguenza, in relazione alle singole leggi di delegazione, deve accertarsi se il legislatore delegato abbia il potere di conferire alle norme un'efficacia retroattiva".
Si è già dimostrato che nella fattispecie non esisteva alcuna legge delega che legittimasse il Governo ad emettere le disposizioni di cui all'art. 25 in esame. Pertanto, a maggior ragione, deve ritenersi che non ricorre la particolare delega del potere di conferire alle norme efficacia retroattiva.
2. Va inoltre evidenziato che nella prospettiva testé colta la norma in esame soffre di un ulteriore vizio per violazione del principio di ragionevolezza, quale limite per 1'emanazione di leggi aventi efficacia retroattiva (art. 3 Cost.).
La Corte Costituzionale sent. n. 402/93 ha affermato che "La legge retroattiva e' soggetta al controllo di conformità al principio di ragionevolezza secondo criteri analoghi, sia che si tratti di una norma innovativa con clausola di retroattività, sia che si tratti di una norma interpretativa, per sua natura retroattiva".
Alla luce di tale principio, deve ritenersi che valgano in questa sede (ossia con riferimento all'interpretazione dell'art. 25, comma terzo, D. Lgs 342/99 come norma innovativa con clausola di retroattività) le medesime ragioni di contrasto con i principi di ragionevolezza ed uguaglianza di cui all'art. 3 Cost., già in precedenza illustrate con riferimento alla qualificazione dell'art. 25 comma terzo come norma interpretativa; le già espresse ragioni di incostituzionalità per contrasto con l’art. 3 Cost. devono pertanto intendersi integralmente richiamate in questa sede.
3. Sotto diverso punto di vista la qualificazione di irretroattività della citata disposizione espone questa ad una ulteriore censura di illegittimità costituzionale per violazione delle funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario (artt. , 24, 101, 102, 104 Cost.).
Ed infatti, con riferimento alla riserva costituzionale delle funzioni giurisdizionali al potere giudiziario, valgono anche per le norme innovative aventi efficacia retroattiva i medesimi limiti innanzi enunciati con riferimento alle norme interpretative.
In tal senso si è pronunciata la già citata Corte Costituzionale, sentenza n. 402/93, affermando che la legge innovativa avente efficacia retroattiva, non deve comunque "influire su concrete fattispecie sub iudice".
Alla luce di tale principio, deve ritenersi ancora una volta che valgono in questa sede (ossia con riferimento all'interpretazione dell'art. 25, comma terzo, D. Lgs 342/99 come norma innovativa con clausola di retroattività) le medesime ragioni di contrasto con la riserva costituzionale del potere giurisdizionale contenuta negli artt. 24, 101, 102, 104 Cost., già in precedenza illustrate con riferimento alla qualificazione dell'art. 25, comma terzo, D.Lgs. 342/99, come norma interpretativa; le ragioni di incostituzionalità per contrasto con gli artt. 24, 101, 102, 104 Cost. devono pertanto intendersi integralmente richiamate in questa sede.
4) Irretroattività dell’art. 25, comma terzo, D.Lgs. 342/99
Deve dunque convenirsi che evidenti motivi di illegittimità costituzionale inducano a ritenere che il secondo comma dell'art. 25 del citato decreto legislativo escluda l'applicabilità della indicata normativa ai contratti bancari in corso alla data di entrata in vigore del decreto medesimo.
L'invalidità e l'inefficacia delle clausole, che nei contratti bancari prevedono la capitalizzazione trimestrale degli interessi debitori anatocistici maturati nelle operazioni in conto corrente (consacrata dalle ormai celeberrime sentenze, nn. 2374/99, 3096/99 e 12507/99, della Suprema Corte), dunque permane e non viene meno per effetto delle ultime modifiche al testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia (t.u.b.) -
Non declina pertanto, per effetto della nuova disposizione legislativa, la possibilità per l'odierno esponente di richiedere, in virtù della dedotta invalidità contrattuale, la restituzione degli interessi debitori illegittimamente capitalizzati alla scadenza di ogni trimestre dalla banca, e da questa incamerati nel corso dell’intero rapporto.
Il legislatore, con la citata disposizione, ha senz'altro voluto regolamentare solo i contratti bancari stipulati dopo la entrata in vigore del citato decreto legislativo ed i futuri rapporti tra banche e utenti, indicandone criteri e principi guida, tra cui quello che uniforma le modalità di capitalizzazione degli interessi, sia debitori che creditori, maturati sui conti corrente.
In sostanza il legislatore ha attribuito, solo per il futuro e dopo l’avvenuta pubblicazione del D.Lgs. 342/1999, ammissibilità all’anatocismo, purché adeguato alle modalità ed ai criteri per la produzione di interessi sugli interessi indicati con successiva delibera del CICR (Comitato Interministeriale per il Credito e il Risparmio).
L'art. 25 D.Lgs. 342/99 indica in altri termini tre distinti momenti di regolamentazione dell’interesse anatocistico:
1. nel primo momento, che va dall’entrata in vigore della delibera del CICR in poi, la capitalizzazione degli interessi sui conti correnti deve avvenire con la stessa periodicità sia per le operazioni attive che passive e secondo le modalità e i tempi di adeguamento indicati nella delibera, pena l’inefficacia della clausola;
2. nel secondo momento, che decorre dalla pubblicazione del decreto legislativo all’entrata in vigore della delibera del CICR, le clausole relative alla produzione di interessi sugli interessi maturati, contenute nei contratti stipulati dopo la pubblicazione del decreto legislativo ed anteriormente alla data di entrata in vigore della delibera del CICR, sono valide ed efficaci fino a tale data e, dopo di essa, debbono essere adeguate al disposto della menzionata delibera, che stabilirà altresì le modalità e i tempi di adeguamento; in difetto di adeguamento, le clausole divengono inefficaci e l'inefficacia può essere fatta valere solo dal cliente;
3. nel terzo momento, che decorre dall’entrata in vigore del codice civile e dell’art. 1283 c.c. alla entrata in vigore del decreto legislativo, l’anatocismo trimestrale è inammissibile sia perché espressamente vietato (è ammissibile solo quello semestrale o annuale) sia perché non esistono usi normativi in materia.
A prescindere dai numerosissimi ed autorevoli rilievi critici già sollevati in merito alla scelta adottata con il decreto in esame, che pone, come detto, gravi problemi di coordinamento sistematico tra la legislazione comunitaria, la norma di cui all'art. 1283 c.c. e l’art 1203 t.u.b. (come novellato dal riportato art. 25 D.Lgs. 342/99), si intende, dunque, sottolineare la necessità di sciogliere il nodo gordiano del problema dell'ambito temporale di applicazione della norma di legge sopra citata.
Infatti, non vi è alcuna possibilità di considerare retroattiva l'efficacia del disposto normativo di cui al nuovo art. 120 T.u.b., così come modificato ed integrato dal citato art. 25 del decreto in esame.
Occorre considerare che il nuovo decreto legislativo, come ogni legge dello Stato, obbedisce al principio generale del nostro ordinamento giuridico sancito dall'art.111 delle preleggi, in forza del quale “la legge non dispone che per l'avvenire: essa non ha effetto retroattivo”: ne consegue che la disciplina normativa introdotta dal decreto legislativo in parola, da interpretarsi in combinato disposto con tale principio, non può essere applicata anche ai rapporti pregressi e pendenti alla data della sua pubblicazione: nulla, infatti, il decreto legislativo prevede in proposito.
Secondo la giurisprudenza costituzionale e di legittimità, il principio di irretroattività delle leggi costituisce un canone interpretativo fondamentale, tale da orientare l'interprete nel senso della normale irretroattività della legge, e derogabile solo in virtù di previsione, esplicita o implicita, contenuta nella legge medesima.
Allo stato, però, non può ragionevolmente affermarsi, per quanto argomentato, che il legislatore delegato abbia voluto derogare a detto principio, né esplicitamente, posto che nessuna norma, né della legge delega né tantomeno del rispettivo decreto di attuazione, ne estende l'applicabilità anche ai rapporti giuridici esauriti o già sorti anteriormente alla sua entrata in vigore, né implicitamente, come può desumersi dall'effettiva e chiara volontà del legislatore.
Nel caso in esame non vi è alcuna previsione, neppure implicita, che sia ammissibile l’anatocismo trimestrale nel periodo anteriore alla data di entrata in vigore del decreto legislativo: vi è anzi la premura del legislatore di ammettere l’anatocismo (benché non si faccia ivi riferimento a quello trimestrale) sulle sole operazioni passive nel solo periodo che va dalla data di pubblicazione del D.Lgs. 342/99 alla data di entrata in vigore della delibera del CICR (ovvero il secondo momento, nello schema sopra riportato).
La regolazione di detto periodo transitorio, nel senso di ammettere tout court l’anatocismo, sta a sottolineare l’assoluta inammissibilità di detta pratica nel periodo antecedente (terzo momento): non è ammissibile, infatti, che una legge dica che è valido ciò che risultava già valido, a meno di non voler ipotizzare una insensata tautologia nella formulazione del dispositivo della norma legislativa in esame, interpretazione arbitraria ed inaccettabile alla luce del generale principio di conservazione delle norme giuridiche.
In verità, e proprio per rappresentare l'unica percorribile interpretazione conservativa della norma in esame, deve concludersi che il legislatore delegato del 1999, avendo riconosciuto la illegittimità della pregressa prassi bancaria di capitalizzazione trimestrale degli interessi composti (certificata alla luce delle limpide ed inoppugnabili argomentazioni storico - giuridiche addotte dalla segnalata Giurisprudenza di legittimità), abbia inteso inserire una norma diretta a disciplinare la situazione transitoria verso il nuovo regime definito dall'art. 120 t.u.b., sanzionando la generica ammissibilità dell’anatocismo dalla data di entrata in vigore del decreto legislativo: non occorre, infatti, una complessa argomentazione di tipo esegetico per dimostrare che, ove l’anatocismo fosse stato ritenuto valido, non vi sarebbe stato alcuna necessità di inserire l’inciso di cui all'ultimo comma dell'art. 25 D.Lgs. 342/99.
Si consideri che il D.Lgs. 342/99 parla solo di anatocismo in genere inteso, non prevedendo affatto la abrogazione dell’art. 1283 c.c., che, come noto, secondo la dominante opinione (cfr., per tutti, Lamedica), ammette, e solo nei casi espressamente previsti, la sola capitalizzazione periodica semestrale, e giammai quella a cadenza trimestrale.
Non va poi taciuto che dalla lettura degli atti parlamentari che hanno preceduto l’approvazione del decreto governativo si evidenzia la stringente necessità per il legislatore delegante, di cui il governo ha avvertito la rilevanza, di fornire una disciplina chiara ed inequivocabile ai rapporti che in futuro saranno destinati ad instaurarsi tra banche e clienti, lasciando in ogni caso impregiudicate le conseguenze derivanti ai vecchi contratti dalla invalidità dell’uso anatocistico trimestrale riconosciuto dalla Cassazione.
Alla luce di quanto premesso non può dunque persuadere l'avversa prospettazione che attribuisce alla citata norma delegata una funzione di sanatoria delle clausole relative alla produzione di interessi sugli interessi in questione (come quelle oggetto del presente giudizio), attraverso implicita interpretazione autentica della normativa vigente, argomentando che il legislatore abbia inteso così dirimere le incertezze della prassi sull’anatocismo bancario, le quali apparivano presuntivamente idonee a provocare un imponente contenzioso, suscettibile di determinare una presumibile lesione della certezza dei rapporti giuridici vigenti ed un aggravamento delle disfunzioni della giustizia civile.
Tale prospettazione, infatti, in quanto volta a sostenere la tesi della retroattività sic et simpliciter della norma delegata, non supera il vaglio di una interpretazione sistematica di tale disposto con l'art. 1283 c.c. e l'art. 11 delle disposizioni preliminari al codice civile, in guisa che la nota disposizione si colloca necessariamente in un tessuto ordinamentale caratterizzato dal generale principio del divieto dell'anatocismo trimestrale nelle obbligazioni pecuniarie sorte anteriormente alla sua entrata in vigore.
5) Illegittimità costituzionale, in relazione agli artt. 3, 47 Cost. dell’art. 25, terzo comma, D.Lgs. 342/99, per violazione del principio della tutela del risparmio
È infine utile rilevare che l'anatocismo trimestrale, generalmente applicato per anni dalle banche ai rispettivi clienti, contrasta con il principio costituzionale della tutela del risparmio in tutte le sue forme.
Le banche hanno la funzione istituzionale, propria dell'economia di mercato, d'intermediazione nell'uso del risparmio e quindi le norme che disciplinano 1'esercizio del credito dovrebbero realizzare il principio contenuto nell'art. 47, comma secondo, della Costituzione, nel senso di favorire l’accesso al risparmio verso investimenti produttivi.
L'applicazione generalizzata dell'anatocismo trimestrale invece, sino ad ora, ha gravato enormemente sull'esercizio dei credito, innescando meccanismi di progressivo aumento dei montanti, così da determinare, in concreto, l'aumento del tassi effettivi globali riferiti ad anno ed, ancora di più, ad interi periodi di credito.
Il meccanismo anatocistico trimestrale, di per sé, determina un enorme aumento effettivo del costo del danaro, al di fuori da ogni controllo istituzionale da parte degli organi a ciò preposti dall'ordinamento dello Stato.
L'aumento del costo del danaro riduce la competitività degli operatori economici (soprattutto agricoltori, artigiani, nonché piccole e medie imprese commerciali ed industriali), che, non essendo in grado di autofinanziarsi, normalmente fanno ricorso al. credito, perché determina l'aumento dei loro costi di produzione e li costringe, prima o poi, ad uscire dal mercato per insolvenza o al fine di evitare irreparabili conseguenze.
L'elevato costo del denaro, quindi, si traduce in un generale aumento dei costi delle imprese, incide progressivamente sul livello dei prezzi di mercato e sulla competitività dei prodotti soprattutto dei piccoli e medi operatori rispetto a quelli delle grandi imprese nazionali e dei produttori esterni, con gravissimo danno per 1'economia nazionale.
Il nuovo indirizzo della Corte di Cassazione era da tempo auspicato: per effetto della diffusione del meccanismi dannosi conseguenti all'anatocismo trimestrale, gli istituti bancari sono venuti meno al loro compito istituzionale di intermediari nell'uso del risparmio, che, naturalmente, ha una. funzione produttiva.
La norma in esame, violando i suddetti principi costituzionali, è rivolta a convalidare gli effetti dannosi di una pratica oligopolistica e di cartello imposta generalmente agli operatori economici, ma non da loro accettata, in violazione della norma generale contenuta nell'art. 1283 c.c., ispirata, certo, ai principi di ordine pubblico e di tutela del contraente più debole, del risparmio e dell'economia nazionale.
Il nuovo indirizzo giurisprudenziale, ove auspicabilmente consolidato, determinerà la progressiva riduzione del costo del danaro, dei costi delle imprese e dei prezzi, con evidenti benefici per i consumatori, per la stabilità degli equilibri del mercato, per la competitività delle imprese e per il miglioramento dell'economia nazionale.
Una norma finalizzata a convalidare una pratica dannosa per l’economia, imposta in violazione di una norma civilistica generale, è certamente in contrasto con i principi di ragionevolezza e coerenza interna dell'ordinamento contenuti nell'art. 3 Cost., nonché con i principi di tutela del risparmio di cui all'art. 47 Cost. -
Si ritiene (Merusi, in Comm. Banca) che l'art. 47 Cost. si pone l’obiettivo di tutelare e difendere il valore della moneta nel rapporto dinamico risparmio - credito. Risparmio e credito costituiscono i due termini in cui si esprime la liquidità monetaria (Capriglione, Intervento pubblico ed ordinamento del credito), che a sua volta è uno dei fattori dell'equilibrio economico “espressamente costituzionalizzato”.
L'articolo suddetto tutela sia il risparmio “che correlato al credito entra a far parte della liquidità monetaria” (Merusi, op. cit.) sia “il risparmio in tutte le sue fonti", cioè ogni forma di surplus monetario di carattere volontario in qualunque modo indirizzato (Cerri e Baldassarre, in Giur. Cost.).
Se è vero che il risparmio è una risorsa pubblica, non può essere legittimamente favorita una pratica contra legem che ne deformi la naturale funzione con grave danno per chi ha fatto ricorso al credito bancario, per la stabilità dei prezzi e per l’intero sistema economico.
- V -
Valutazioni conclusive
I surriferiti motivi di illegittimità costituzionale delle impugnate disposizioni attengono dunque ad aspetti di sistema dei rapporti tra funzione legislativa, nella limitata accezione di funzione delegata di normazione dell’Esecutivo, e funzione riservata di giurisdizione dell’Ordine giudiziario nonché a profili di adeguamento della prassi del c.d. diritto vivente alla griglia formale predisposta dal Costituente in punto di esercizio della delega legislativa dall’Esecutivo.
In particolare, sui limiti costituzionali del potere del legislatore di emanazione di disposizioni interpretative e di disposizioni innovative, si ribadisce che la impugnata norma dell’art. 25 D.Lgs. 342/1999, laddove impropriamente letta come norma interpretativa del previgente ordinamento settoriale sull’anatocismo, introduce una illegittima restrizione dell’ambito di efficacia dell’art. 1283 c.c., prevedendo la efficacia delle clausole anatocistiche limitatamente ai rapporti bancari, creando una sorta di “subsistema” (così Carbone, in Il Corriere Giuridico n. 3/2000) per la regolamentazione degli interessi anatocistici limitatamente al settore bancario, lasciando aperto il problema per ogni settore di capitalizzazione degli interessi.
Ma siffatta libertà esegetica di una norma supposta ex professo meramente interpretativa contraddice apertamente la nozione che di tale prodotto normativo è fornita da consolidata Giurisprudenza di questa Ecc.ma Corte nei termini di una limitata funzione della norma di interpretazione autentica di chiarimento del senso delle norme preesistenti, di eliminazione di incertezze e contrasti interpretativi, onde “norma da interpretare e norma interpretata si coniugano indissolubilmente, dando luogo ad un precetto normativo unitario”[10] (così Carbone, cit.).
Quanto alla dedotta violazione delle funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario, non può che ribadirsi che l’orientamento della Consulta sul punto è nel senso che il generale potere del legislatore ordinario di dettare norme dall’applicazione delle quali possono derivare effetti nei riguardi dei procedimenti giudiziari in corso deve ritenersi escluso ogni qual volta tale potere, lungi dall’impedire una situazione di irrazionale disparità di trattamento, si traduca nello specifico intendimento di vincolare il giudice ad assumere, come nel caso di specie, una determinata decisione su ben specifiche ed individuate controversie, con conseguente deminutio della normazione legislativa generale ed astratta ad una precettistica dal contenuto meramente provvedimentale come nell’ipotesi, sanzionata dalla Corte, che il legislatore, abusando della sua prerogativa di interprete d’autorità del diritto, precluda al giudice la decisione di merito imponendogli di dichiarare l’estinzione dei giudizi pendenti[11].
Ove infine la impugnata disposizione avesse carattere apertamente innovativo del sistema, pure sono da ravvisarsi estremi per il controllo di legalità costituzionale, sotto il profilo della illegittima immutazione della portata precettiva dell’art. 1283 c.c., nella parte in cui, senza esplicitamente derogare a tale disposizione, supera i limiti imperativi da essa posti al generale principio di ammissibilità dell’anatocismo nelle obbligazioni pecuniarie, senza peraltro alcuna esplicita delega dal legislatore ordinario secondo la nota e richiamata giurisprudenza di codesta Ecc.ma Corte.
G G G G G
Tanto premesso, e con riserva di ogni più ampia deduzione in sede di pubblica discussione, l’odierno deducente, MIGLIETTA Dott. Pietro, come in epigrafe rappresentato, difeso ed elettivamente domiciliato, nel costituirsi nel presente procedimento, rassegna le seguenti
c o n c l u s i o n i
“Voglia l’Ecc.ma Corte adita, disattesa ogni contraria, deduzione, eccezione e conclusione, previa ogni opportuna declaratoria imposta dall’odierno dibattito giudiziale, in accoglimento dei suesposti motivi, così provvedere:
in via preliminare,
ACCERTARE e DICHIARARE la non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale per i motivi esposti nella ordinanza di rinvio del Tribunale di Lecce;
in via principale,
ACCERTARE e DICHIARARE la illegittimità costituzionale, in riferimento all’art. 76 Cost., del comma 3 dell’art. 120 Decreto Legislativo 1 settembre 1993 n. 385, come introdotto dall’art. 25 Decreto Legislativo 4 agosto 1999 n. 342, nonché, derivatamente, la illegittimità di quelle ulteriori ed eventuali disposizioni legislative o aventi forza di legge la cui illegittimità derivi come conseguenza della invocata declaratoria;
in via subordinata,
ACCERTARE e DICHIARARE la illegittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 24, 101, 102, 104 e 47 Cost., del comma 3 dell’art. 120 Decreto Legislativo 1 settembre 1993 n. 385, come introdotto dall’art. 25 Decreto Legislativo 4 agosto 1999 n. 342, nonché, derivatamente, la illegittimità di quelle ulteriori ed eventuali disposizioni legislative o aventi forza di legge la cui illegittimità derivi come conseguenza della invocata declaratoria”.
Roma, lì 10 giugno 2000.
Con ossequio.
(Avv. Antonio TANZA)
[1] In materia di conto corrente bancario, non esisteva, nei primi anni di applicazione del nuovo codice, il concetto di capitalizzazione trimestrale degli interessi debitori: la scarsa giurisprudenza (Cass. Civ. 05/10/1953) che si era interessata all’argomento aveva accertato l’esistenza solo di un uso di capitalizzazione semestrale. D’altra parte le Camere di Commercio, anche anteriormente all’entrata in vigore del Codice civile del 1942, non conoscevano la capitalizzazione trimestrale (cfr. delib. n. 8 del 23/10/1933 della Camera di Commercio di Catania). Il 1° gennaio 1952 entra in vigore il primo gruppo (15 clausole) delle N.U.B. in tema di conto corrente e, precisamente la clausola 62 prevedeva: ”I conti che risultino, anche saltuariamente, debitori vengono regolati, invece, in via normale trimestralmente, e cioè a fine marzo, giugno, settembre e dicembre di ogni anno, applicando agli interessi e competenze di chiusure valuta e data di regolamento del conto”. Nulla prevedevano, all’epoca di entrata in vigore delle NUB, gli usi bancari raccolti dalle Camere di commercio in relazione alla capitalizzazione trimestrale (cfr. delib. n. 223 del 05/11/1952, della Camera Commercio di Trapani).
[2] Singolare e significativo della particolare influenza dell’ABI è l’operato di moltissime camere di commercio in ordine all’accertamento degli usi che, invece di esperire direttamente indagini e redigere il progetto di raccolta, sentite le eventuali osservazioni delle associazioni professionali interessate, si limitano a recepire integralmente le condizioni generali elaborate dall’associazione di categoria delle banche, o a farvi espresso richiamo, individuando così un uso per relationem del tutto privo dell’elemento soggettivo.
[3] Già in precedenza perspicua Giurisprudenza di merito si era pronunciata nel senso dell'illegittimità, per contrasto con l'art.1283, dell'anatocismo trimestrale: ricordiamo, a proposito, Trib. Vercelli 21 luglio 1994, Trib. Busto Arsizio 15 giugno 1998, nonché, ancor più di recente, Trib. Monza 23 febbraio 1999.
[4] Così Cass. Civ. 9311/1990.
[5] Cfr., in tal senso, anche la recentissima Corte di Cassazione, Sez. III, 17 aprile 1999 n. 3845.
[6] In Giur. Cost., 1995, 2419.
[7] Cfr., in tal senso, Corte Cost. 23 novembre 1994 n. 397 in Fisco, 1995, 1194; Quaderni Regionali, 1994, 1429; Rass. Avv. Stato, 1994, I, 399; Dir. Prat. Trib., 1995, II, 697; Corte Cost. 26 gennaio 1994 n. 6, in Quaderni Regionali, 1994, 519; Corte Cost. 16 giugno 1993 n. 283, in Rass. Avv. Stato, 1994, I, 1, n. Russo; Corte Cost. 10 febbraio 1993 n. 39, in Dir. Lav., 1993, II, 578, n. Gatta; Giur. It., 1994, I, 301, n. Nogler, Corte Cost. 4 aprile 1990 n. 155, in Foro It., 1990, I, 3072, n. Tarchi; Amm. It., 1990, 818; Impresa, 1990, 1338; Cons. Stato, 1990, II, 611; Corriere Giur., 1990, 588, n. Berti; Riv. Dir. Comm., 1990, II, 211, n. Brancadoro; Arch. Civ., 1990, 771, n. Alibrandi; Dir. Informazione e Informatica, 1990, 475; Giust. Civ., 1990, I, 2245; Corte Cost. 2 febbraio 1988 n. 123, in Foro It., 1989, I, 652; Foro Amm., 1989, 913; Giur. Cost., 1988, I, 374, n. Cattarino.
[8] In Giur. It., 1983, I, 1, 1040
[9] In Foro It., 1983, I, 2096; Giur. Cost., 1983, I, 167, n. Cerri; Cons. Stato, 1983, II, 309; Giur. It., 1983, I, 1, 1594
[10] Giurisprudenza costituzionale costante sul punto; cfr., in tal senso, Corte Cost. 23 novembre 1994 n. 397, in Foro It., 1995, I, 1440; Giur. Cost., 1994, 3529.
[11] È l’ipotesi esaminata in Corte Cost. 10 aprile 1987 n. 123, in Foro It., 1987, I, 1351.
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